Arranti

Per reggere festoni da pochi grammi e disegni di bambini il cemento è uno spreco. Qualunque cosa disegnino i bambini.

Chi costruì il capannone aveva in mente grossi pesi da sollevare, convogliatori aerei, gru, montacarichi. Lamiere che oscillano. Linee di montaggio. Tirò su il capannone in fretta e furia, originale come una scatola da scarpe. Senza badare agli spifferi, piuttosto a sfiatatoi e bocche di scarico. Della luce del sole non si è curato, perché la luce vera, seria, affidabile, la luce che serve per lavorare, quella la danno i neon, molto più in basso.

L’anonimo geometra volle una soletta in calcestruzzo spessa due metri, per impedire alle presse di sprofondare. Per sostenerle nel momento terribile in cui il maglio da mille tonnellate si abbatte sull’acciaio.

Ora quel pavimento, esposto alla pioggerella irregolare dei piedi dei bambini, si sta rovinando.

Una centrale di cogenerazione da cinquanta megawatt alimenta lampadine intermittenti e colorate. Alimenta i microfoni dei relatori. L’acustica non aiuta. Nessuno capisce, pochi guardano le diapositive. Ma dopo ogni intervento i bambini applaudono seri. Anche genitori, mimi, hostess, trampolieri e vigili del fuoco battono le mani. Applaudono anche i babbi natali. Sentono avvicinarsi la distribuzione dei regali.

Fuori, gli applausi perdono forza nella nebbia. Il guardiano all’ingresso non ci fa caso, perché guarda la TV nel suo gabbiotto. Nel parcheggio, Claudio Di Monte tiene gli occhi chiusi e il sedile reclinato. Quel che resta degli applausi lo blocca il finestrino della sua Lambda blindata.

Un faro bianco illumina dal basso le bandiere. La bandiera della Acme è al centro: dieci centimetri più alta dell’Italia, venti più dell’Unione Europea. Non l’ha disegnata un artista, e una volta non c’era neanche, c’era solo una placca d’ottone alla palazzina uffici. Una volta si dava per scontato che la Acme, per chi ci lavora, fosse più importante dell’Italia e dell’Unione Europea.

Da dentro arriva una nuova bordata di applausi. Strillano. Di Monte resta sprofondato nel sedile In macchina ci sono venti gradi, fuori due. Il climatizzatore è silenzioso, il fiotto tiepido, gentile. Di Monte prova a cambiare posizione, si mette di fianco. La guancia contro il sedile in pelle di vacchetta.

L’abete nel cortile è alto dodici metri. “Quanto un palazzo di due piani”, hanno scritto su Futuro, il giornale della Acme. L’abete ha ventotto anni, ma è lì da due giorni. E’ stato affittato insieme alle hostess, ai mimi, ai maghi, ai vigili del fuoco, all’ambulanza, all’impianto di illuminazione e a quello di amplificazione, al proiettore, alle sedie, al tavolo per i relatori, al catering, all’architetto, ai panelli in cartongesso. E’ arrivato ieri l’altro, con una tonnellata di terra sua fasciata intorno alle radici. Dopo l’epifania riparte. Dopo l’epifania si sgraverà di luci, angioletti, festoni, e altri pendagli. Tornerà albero.

Lo stabilimento invece resta, è di proprietà. Forse fra un anno lo venderanno, per poi riaffittarlo dal nuovo padrone.

Di Monte respira pesantemente. E’ un uomo robusto, ha la bocca aperta, sta per sbavare, è già capitato. Intorno a lui: dodici lambda vuote. Cinque hanno appena iniziato a scaldarsi, una è già calda. Sono programmabili. L’azienda le regala a un dipendente su cinquanta: un benefit di massa. La piccola massa dei dirigenti. Una siepe, né invalicabile né compatta, circonda il parcheggio a loro riservato. La siepe è una forma di pudore e una provocazione. Come la tenda che, sugli aerei, tirano fra la Business e l’Economy. Da sotto si vedono piedi. Stimola l’immaginazione dell’Economy, quando in Business servono da mangiare. Ma, nei momenti critici, le hostess la tirano via.

Tutte le macchine dei dirigenti hanno meno di diciotto mesi. Le macchine degli altri ogni età possibile. Il parcheggio dirigenti è un asilo nido. C’è puzza di pelle e di nuovo. Ci sono buste di plastica ancora sigillate, e gli adesivi messi dal costruttore: “auto dell’anno”; “come usare l’air-bag”; “numero verde”. Adesivi delle vacanze nessuno li appiccica. I souvenir è meglio tenerseli a casa. I dirigenti non hanno il tempo di affezionarsi alle macchine. Spesso non ne ricordano il colore. Nelle foto non le riconoscono. Ancora bambine, gliele portano via. Gliele sostituiscono. Dopo un po’, non ci fanno più caso.

Sono solo macchine.

Di Monte invece è un autista. Costa quanto duecento tettucci apribili. Pochi lo montano. L’azienda lo regala a un dipendente su quindicimila. Solo nel terzo mondo è di serie. Ci sono dirigenti che, pur di averlo, sono contenti di andare a vivere in India.

Da dentro il capannone esce musica. Musica di natale, naturalmente. Ma è difficile distinguere quale. Jingle Bells?

Nel parcheggio dirigenti c’è una sola lambda con autista. E quest’autista, arrivando, ha pensato: “perfetto”. E intendeva: preferisco così. Preferisco riposarmi, da solo, in macchina, piuttosto che dire pettegolezzi e volgarità con i colleghi. Fumando sigarette. Io sono il tipo che preferisce rilassarsi, o chiamare casa. Lo pensa ancora adesso, confusamente, nel dormiveglia, mentre cerca una posizione che non trova, aggiustando la giacca perché non stropicci, tirando su meglio un lungo calzino blu. Lo pensa perché è vero. Perché lui è sempre stato cordiale ma sbrigativo.

Ma lo pensa anche per cacciar via l’angoscia.

Quando un autista è l’unico autista è sempre un po’ a disagio. Se è un incontro galante va bene. Se è per far shopping va bene. Ma altrimenti: perché? Perché il capo frequenta gente senza autisti? Gente con così poco potere.

Si è aperto un varco nel muro nero e compatto della fiancata dello stabilimento. Due figure si stringono la mano in controluce. Di Monte ha gli occhi chiusi, non può vederle. Non sente gli ultimi, cerimoniosi auguri del capo dello stabilimento: “Grazie dottore, non speravamo di averla con noi. Grazie dottore, questo è un segnale forte per noi. E’ un segnale per chi lavora qui, e per le famiglie. Grazie davvero”. Non può neanche aver visto il dottor Arranti spalancare le braccia e dire: “ahhhh”, aspirando forte l’aria, per far capire che non ne può più.

La lambda, con i suoi finestrini antisfondamento, è parcheggiata lontano.

Ma Claudio Di Monte, che è l’autista di Vittorio Arranti da ventotto anni, scatta a sedere e apre gli occhi, mentre già la mano destra accende il motore, e la sinistra illumina i fari, e il piede destro pigia l’acceleratore e il sinistro si avvicina alla frizione. Come una balia svegliata dal silenzio del bambino, nel cuore della notte.

Dopo un secondo, la lambda si accuccia ai piedi di Arranti.

Ogni volta che vede il suo cane meccanico illuminarsi e corrergli incontro, ogni volta, tutti i giorni, da trent’anni, Arranti si intenerisce. Qualcuno lo ha aspettato quattro ore nel buio. Qualcuno è stato fermo, mentre lui si muoveva. Qualcuno ha perso un pomeriggio perché lui non perdesse un minuto.

Ci sono cose che nessun computer può sostituire.

Di Monte scende e corre intorno al cofano. Il dottore, quando non ha ospiti, siede davanti, vicino a lui. C’è chi lo fa per populismo; Arranti per leggere senza nausea.

Di Monte corre ma non arriva in tempo. Non ci arriva quasi mai. Con una monovolume dal muso a picco forse, ma la lambda è troppo lunga da circumnavigare. Tuttavia corre, ogni volta, diventando rosso in faccia, appoggiandosi al cofano per svoltare in fretta, e quando ci sono pozzanghere non se ne accorge, e si inzacchera fino al ginocchio. A volte batte contro il paraurti. E fa male. Continua a correre.

Arranti ha già aperto e sta chinandosi per entrare. Di Monte, istintivamente, lo ripara. Il dottore entra in macchina attraverso un tunnel: da un lato la portiera blindata, dall’altro l’autista, gonfio come un rospo. Quasi sempre in completo scuro. Sempre, e comunque, senza giubbotto antiproiettile. “Sono io il giubbotto antiproiettile”, disse una volta Di Monte.

In cambio Arranti non ha mai messo la cintura di sicurezza. Io rischio senza motivo la vita per te, tu rischi senza motivo la vita per me.

Una volta erano in quattro a gonfiarsi intorno al dottore, e altri quattro bloccavano il traffico nei due sensi. Tutti giovani, tutti ex-carabinieri, come Di Monte. Ogni sera portavano il dottore a dormire in un albergo diverso. Ogni giorno cambiavano percorso.

Vent’anni fa pagavano Di Monte per assorbire le pallottole destinate ad Arranti. Oggi lo pagano il doppio per ripararlo dal vento.

Questo è un pensiero che non piace a Di Monte.

Ma anche Arranti ha un pensiero simile. Vent’anni fa, o solo l’anno scorso, lo pagavano per guidare un’azienda. Oggi lo pagano il doppio perché stia al riparo dal vento.

- Andiamo a casa, dottore? – chiede l’autista, tornato al volante dopo aver corso a ritroso, solo più piano

- Sì. Che ore sono?

- Sette e mezza.

- Bene bene…

Il dottore non ha orologio. Il dottore ha persone. Attraversano la zona industriale. Le strade larghe, l’asfalto liscio, i parcheggi sterminati dove, di domenica, vanno a fare scuola guida i privatisti. Dove il sabato notte gareggiano in velocità. Il resto della settimana vanno e vengono le macchine dei dipendenti, cercando di essere puntuali. E i muletti dei magazzinieri si esibiscono in piroette.

La sera del ventitré dicembre è deserta.

- Ha telefonato sua moglie – riferisce Di Monte – e il dottor Canepari, e un dottor Cesena della fondazione Mavila – pronuncia Mavila col tono da “se ho capito bene”.

Arranti sorride, abbandonato sul sedile: – Canepari ha detto dov’è?

- Richiama lui perché è in aereo.

Frecce gialle su fondo marrone: “Sigat automazione”, “Italstampi”, “E.R.A.M. di Montabone e figli”.

Il dottore compone il numero di casa. Usa il dito indice, stacca molto fra una battuta e l’altra. Mette forza sufficiente per i martelletti di una macchina da scrivere. Cerca ogni numero con gli occhi. Impiega quasi un minuto. Esibisce ben chiaro, ben visibile a tutti, che lui non ha familiarità con quell’arnese. Lui non è un tecnico, o una segretaria. E poi chiede: “cosa devo pigiare adesso?”, anche se è un anno che ha quel cellulare.

- Il tasto verde – risponde l’autista.

- Ecco! – dice Arranti, sospirando soddisfatto, perché quello è un lavoro faticoso, che non gli compete, che sbaglia, ma che ogni tanto gli piace fare da sé. Come potare le rose in giardino.

A casa Arranti risponde la tata anziana: – La signora adesso non può venire. Richiama lei, fra cinque minuti.

Nel pezzo di asfalto illuminato dalla lambda si rincorrono, come sbreghi su una vecchia pellicola, le frenate nere, feriali, spesse e corte dei Tir; e quelle festive, magre e lunghe di chi ha corso.

- Ce l’abbiamo il numero di Cesena? – chiede Arranti all’autista – così ce lo togliamo subito.

Cesena parla veloce, quasi ansimando. Chiama Arranti “presidente”. Dice che proprio non c’era urgenza, che lui non voleva disturbare. Che è stata la segretaria a insistere.

- Io sarei ottimista – taglia corto Arranti – c’è di mezzo un po’ di burocrazia, ma sarei ottimista. Di solito non finanziamo piccoli progetti. Ma, per voi, sarei ottimista. Voglio portarlo a un comitato che ho fissato… boh, adesso non ricordo… comunque: per fine gennaio al massimo dovreste avere una risposta definitiva.

- Ma lei è favorevole?

- Sì, sì. Ma non dipende solo da me – si schernisce, compiaciuto – io faccio solo andare avanti la pratica. Mi pare però che ci siano tutti i presupposti. Il merito è vostro, non mio.

- Grazie presidente, lei ci dà davvero una buona notizia. Non so come ringraziarla.

Il presidente continua a sorridere e batte la mano sul ginocchio, come dire: “forza, avanti un altro”. Emette un piccolo grugnito. Dice: – Buon Natale.

- Buone feste presidente, auguri. Lavora ancora stasera, o comincia un po’ di vacanza?

Vacanza. Stasera il presidente si concede un po’ di vacanza.

Cartelli in giallo su sfondo marrone: “Microstampi”, “Officine Grafiche Bertin”, “I.M.A.”, “Tecnoedil”. Due fari cinquecento metri dietro. Poi niente. “Nuova Termoplastica”, “Fratelli Rubatto Srl”, “Olson Italia”. Il dottore manca la custodia del cellulare. Il cellulare cade, finisce sotto il sedile. Il dottore si china a cercarlo. L’autista rallenta, toglie una mano dal volante. Vorrebbe cercarglielo lui, è un desiderio sincero.

- lasci lasci… – Arranti lo esonera da quel compito impossibile.

A Di Monte fa tenerezza il suo dottore che si muove come un adolescente. Come fosse cresciuto di tredici centimetri proprio quell’anno lì, e non avesse ancora imparato bene dove finiscono le braccia, dove le gambe, e come spostarle senza combinare guai. Arranti esagera la goffaggine, per far tenerezza. La mano trema, invece, perché proprio non riesce a fermarla.

E’ di buon umore, giocherella con un pacco incartato:

- Hanno insistito perché prendessi un regalo anch’io…

Quest’anno ai maschi di otto anni regalano un’autopista, alle femmine una casa di bambole. Ai maschi di dieci anni il meccano, alle femmine un piccolo forno. Ai maschi e alle femmine di un anno: la giostra api. Alla Acme piacciono i regali tradizionali.

- L’ha già vista la mostra dei presepi? – chiede all’autista.

- No. Contavamo di andarci, con mia moglie. Ma poi rimandiamo sempre.

- E’ molto, molto graziosa. Ci sono dei diorami semplicissimi, eleganti. Di una bellezza veramente fuori dal comune.

Di Monte fa sì con la testa.

- E poi è molto didattica. – dice Arranti – Ma fatta bene. Ad esempio, ho scoperto che la madonna in ginocchio, adorante, l’hanno resa obbligatoria dal tredicesimo secolo. Prima molti la facevano sdraiata, vicino al bambino. Come una che ha appena partorito.

E’ finita la zona industriale. Accanto alla lambda corrono villette basse, e campi edificabili, e luci al neon, negozi di marmi, magazzini della scarpa, pizzerie “Odisseus”, e vecchie cascine senza nome.

- Dovrebbero esserci ancora dei biglietti. –insiste Arranti – Se li faccia dare dalla Zanardi.

- Grazie dottore.

Un pivellino si sarebbe messo a chiacchierare. Quando Di Monte era nuovo del mestiere non si correva questo rischio, c’era altro a cui pensare. Ma i nuovi di oggi lo corrono, eccome. Lui e Ghezzi lo spiegano, in autorimessa o in sala autisti, davanti alla televisione: “A domanda risponde”, spiegano. Ma i nuovi ci cascano lo stesso. E’ una regola ferrea, immutabile. Valeva per i cocchieri, vale per gli autisti, varrà per chi verrà. Un autista parla solo se il capo ci mette dentro un gettone di parole. Ma il gettone è un gettone di ghiaccio dentro una fornace. Dura pochissimo. L’autista deve attivarsi per alcuni secondi, come la luce per le scale, o l’aria calda per asciugarsi le mani. Anche se è un gettone dolce, familiare, informale, l’autista vero non si fa ingannare. Altrimenti non gli rivolgeranno più la parola. Mai più. Il capo deve poter scegliere, a intervalli di dieci secondi al massimo, se far continuare o morire la conversazione. Il capo è il capo anche della conversazione. Vent’anni fa, quando non c’erano i telefonini, e i radiomobili si usavano solo per lavorare, poteva capitarti di stare tutto il giorno ad aspettare parcheggiato in un cortile, scambiando se va bene due parole. Ma anche allora, quando impazzivi dalla voglia di continuare a chiacchierare, dovevi tenertelo dentro e rispondere senza lasciare nulla in sospeso. Senza rilanciare. Un modo che sarebbe maleducatissimo fuori, ma che è l’unico possibile con un capo. “Un autista deve essere più bravo a parlare che a guidare, o a sparare” diceva sempre Borgaretto, che era autista dell’ingegner Caselli, e insegnò il mestiere a Di Monte.

E infatti Arranti, mentre lui diceva: “Grazie dottore”, Arranti sulla voce gli aveva detto:

- Mi presta il telefono?

- Certo.

Si immettono in tangenziale. Curva interminabile. Il motore della lambda ha il suono denso, vellutato della potenza trattenuta. L’eleganza di chi non sforza. “Sto a duecento per tenermi dalla parte della ragione”, dice Di Monte in autostrada, “Sto a duecento per viaggiare in tutta sicurezza”. - Che vuoi? – risponde Anna, signora Arranti – Maria non ti ha detto che chiamavo io?

- E’ che mi è caduto il cellulare – si giustifica il dottore – Niente. Sapere come stavi… Perché magari mi chiamavi sul cellulare e io non lo trovavo in tempo.

- Sto come una che è tutto il pomeriggio che cerca di preparare una cena, e non sa quanti ospiti ha, e non sa a che ora.

- Bruno e Sara alla fine vengono? – chiede Arranti.

- eh… lo sai tu? Io non li ho più sentiti. Ho fatto apparecchiare anche per loro. Ma mi aspetto la telefonata da un momento all’altro, me la aspetto.

- Ma no, dai. Se non hanno detto niente vengono di sicuro.

- Ti sei ricordato di passare a prendere i dolci?

Arranti si volta d’istinto verso di Monte, in cerca di salvezza. Di Monte fa sì con la testa.

- Sì, è passato Di Monte – sospira sollevato il dottore.

- E lui come faceva a saperlo? – chiede Anna, e senza dargli il tempo di rispondere: – gliel’ha detto la Zanardi, sicuro. Se aspettavamo te… – continua Anna – quella donna ti ama Vittorio. Senza quella donna tu non saresti mai stato nessuno.

Arranti sta zitto.

- Comunque, quando arrivate?

- Siamo appena entrati in tangenziale. Non so… – si gira verso l’autista: – quaranta minuti?

- Anche mezz’ora – risponde Di Monte – Se non troviamo troppo traffico, anche mezz’ora.

- Forse mezz’ora, se non troviamo traffico – ripete il dottore.

- Allora fa ‘na cosa. Finito corso Casale mi fai uno squillo, d’accordo? Così faccio buttare i tortelli.

- Mario e la giovinotta sono già arrivati? – chiede il dottore.

- Ma allora sei scemo. Ti ho detto che non vengono.

Di Monte ne ha sentite tante di telefonate così. Resta sicuro che si amano. Che sotto la scorza c’è tanto amore. Tanto di quell’amore da permettere alla signora impertinenze che lui, Di Monte, non permetterebbe a nessun altro di usare al dottore. Impertinenze che hanno fatto arrossire più di un ospite, in macchina. Perché in una macchina silenziosa come la lambda la voce dentro il cellulare si sente benissimo. E la voce della signora Anna più di tutte le altre.

- Ti ho detto che forse non venivano – la signora quasi urla – e poi ti ho detto che non venivano di sicuro. Che ha chiamato Mario dicendo che andavano per le lunghe in consiglio con quella storia dell’inceneritore, e poi partono direttamente per Foligno.

- Allora siamo solo noi, Giorgia, tuo fratello, e forse Bruno e Sara?

- E’ mezz’ora che cerco di dirtelo. Chi sarà felice è Wendy. Stasera menù completo. Altro che crocchette: dagli antipasti ai pasticcini. Ma se la gente me lo dice all’ultimo, io come faccio a regolarmi?

- Dai dai: cenetta intima.

Di Monte fa i fari a una Toyota bianca. E’ la seconda Toyota bianca che supera in cinque minuti. Le Toyota stanno prendendosi tutto il mercato.

- Comunque – dice Anna – mi lasci cucinare o mi devi raccontare tutto adesso?

- Volevo solo dirti come era andata. Mi hanno anche dato un regalo. Ah, e poi ti saluta Anelli.

- E chi è Anelli?

- Il capo dello stabilimento. Quello coi baffetti. Quello che…

- Vabbé senti – lo interrompe – io torno dalle mie tinche, che sono di là che aspettano. Ciao tesoro. E avvertimi quando stai per arrivare, mi raccomando.

- Ciao, angelo mio. Ciao.

Arranti chiudeva tutte le telefonate sussurrando “Ciao angelo mio”. Come se di quella cosa sola fosse pudico. L’autista può conoscere i veri conti della Acme. Può ascoltare quando gli scappa di essere arrogante con gli inferiori, o servile con i superiori. Ma quella parolina sola è meglio non la senta mai: “angelo mio”.

Di Monte si intenerisce: sì, si amano. E anche lei deve amarlo. Sarebbe inconcepibile altrimenti. E’ lo stesso amore che c’è fra lui e sua moglie? Non ci ha mai pensato. Non lo sa. Non è paragonabile. E poi: lui e Lucia non hanno avuto figli. Certo, sono più affettuosi, ma hanno solo loro due.

- E’ tanto che ha smesso? – Arranti guarda fuori dal finestrino.

- Mezz’oretta, non di più. E’ anche caduto un ponte in barriera di Milano, in quella che chiamano la curva delle cento lire.

- Non so, non conosco

- Sulla Stura

Arranti fa una smorfia facendo dì sì con la testa. Come dire: è lei lo specialista. Intanto lo specialista incolla la lambda al culo di un furgone. Quasi lo spinge col muso. Quando si viaggia a centottanta all’ora, è facile trovare chi va più lento di te, persino in tangenziale.

- Vicino all’autostrada, vicino allo stabilimento di corso Giulio Cesare – insiste Di Monte, che quando si tratta del suo lavoro non riesce a contenersi.

Arranti allarga le braccia. Lui non ci si orienta. Non sa dov’è il ponte, non sa dov’è barriera di Milano. Non sa neanche dov’è Torino. Non è il suo lavoro: abbiate pazienza. Trilla insistente da sotto il sedile. Il dottore si china a cercare. L’autista rallenta, poi accosta in corsia di emergenza. Mette le quattro frecce e scende nella nebbia, nel buio. Non lo investono. Riesce a fare il giro. Apre dal lato del dottore, e lui è ancora là che fruga, accartocciato su di sé, quasi raggomitolato per terra. Impigliato.

- Ecco dottore… – dice Di Monte, tirando fuori il cellulare da sotto il sedile.

- Pronto – dice subito Arranti.

- Ciao Vittorio, hai finito di fare Babbo Natale?

Di Monte chiude sbattendo la portiera più del necessario. E camminerà piano intorno alla macchina: non ha fretta di sentire la voce di Marco Canepari.

- Faccio un lavoro – sta dicendo Arranti –che assomiglia sempre di più a quello dei preti. Ma ho l’impressione di non essere l’unico.

- Anche io? – ridacchia Canepari.

- No. Tu non hai fatto abbastanza carriera. – ribatte Arranti – Non ancora.

Di Monte conosce Canepari da quindici anni, da quando, neo laureato, il dottore decise di assumerlo. Ma ha l’impressione di conoscerlo fin da bambino. Un bambino che non strilla euforico sul bagnasciuga. Gioca dietro le cabine, dentro castelli di vecchie sdraio impilate. Terrorizza a parole, più che picchiare davvero. Le poche volte che Di Monte ha giocato con lui, si è sempre preso la colpa di tutto.

- Io comunque – dice Arranti – oggi lo stipendio me lo sono guadagnato. Dovevi vedere com’erano commosse le mamme. Purtroppo Di Monte ha preferito starsene fuori, e non può confermartelo.

L’autista trasale. Sente l’urgenza di dire qualcosa, ma non sa che cosa. Allora sorride, e arrossisce leggermente. E’ orgoglioso che il suo capo lo nomini, anche solo per scherzo. Per questo sorride, è più forte di lui. Ma ha anche il dubbio che dietro lo scherzo si nasconda un rimprovero. Per questo arrossisce, per l’imbarazzo postumo di aver gioito di un rimprovero.

- E poi c’erano i maghi – racconta Arranti – e quelli che fanno gli animali con i palloncini.

- Tonci è venuto? – chiede Canepari

- Sì è scusato. Sai, i mercati…

- Valmigli?

- Ma lui è stato correttissimo. Lui l’ha detto subito che non veniva. In compenso c’era l’ottimo Anelli, che mi ha fatto molti complimenti.

- E chi è Anelli?

- Il direttore di stabilimento. Un brillante giovanotto sui trenta, trentacinque anni. Mi ha detto di chiamarlo per qualsiasi cosa. Posso dare anche a te il numero, se vuoi…

- Vittorio, non puoi continuare a farti prendere per il culo.

- E perché no?

- Perché tu sei – stava per dire: sei stato – Vittorio Arranti.

- Io sono un dipendente, faccio quello che mi dicono – Arranti ha il solito tono canzonatorio di non si sa chi, o cosa. Ma resta una traccia, troppo vistosa, di amarezza.

- Io se fossi in te me ne sarei andato già da un pezzo.

- Così poi alle dieci del mattino mia moglie mi sveglia, e mi manda a comprare i limoni.

- Vai a giocare tutto il giorno a golf. Che te ne frega? Perché continui a mangiar merda?

Di Monte stringe forte il volante e pensa: parla con più rispetto. Tu devi la vita al dottore più che a tuo padre e tua madre. Ti meriti due ceffoni. Due sonori ceffoni. Ma Canepari sta volando diecimila metri sopra il mare, e anche fosse lì vicino: è un direttore. Di Monte un autista. Il peggio che potrebbe fare, sarebbe portarlo a spasso senza gentilezza.

- Se poi ti viene voglia di lavorare un po’ – sta dicendo Canepari – spargi la voce e ti vengono a cercare a casa. Ma scherziamo? Arranti?

Arranti sorride. Vorrebbe dire: “lascia stare”. Non ci riesce. L’altro continua:

- Tu potresti fare il guru. Parli quando vuoi, dici quello che vuoi, e gli altri ti pagano. Vorrei poterlo fare io – io, persino io, Marco Canepari – e tu, invece, vai a consegnare pacchi dono…

- Si vede che non sono riuscito a metter via tutti i soldi che hai tu. – punge Arranti.

- Ma dai!

- Io ho famiglia – e, quasi involontariamente, calca sull’io – Quello che mi paga la Acme non me lo dà nessun altro.

- Dai Vittorio, non essere ridicolo – sghignazza Canepari – io dico che è ora che te la prendi un po’ più comoda. Prendi tempo per te. E per Giorgia, e Anna. O almeno per Wendy.

Comprare quadri d’autore per Arranti non è più un lusso, Di Monte lo sa, lo capisce. E’ come per lui il gelato. Togliere quei quadri, o quei gelati, causerebbe uguale sofferenza. Uguale, piccola, pungente umiliazione. Il dottore fa bene a continuare a lavorare, pensa Di Monte.

E poi, ritirandosi, dovrebbe rinunciare anche a lui.

Ma questo Di Monte non riesce a pensarlo.

- Dai, – Arranti cambia discorso – raccontami qualcosa di serio. Che si dice in giro?

- Boh, niente di che.

Tangenziale: proiettili con traiettoria e velocità irregolari, su tre corsie per senso di marcia. Proiettili coi fari accesi, più pesanti di una tonnellata.

- Lo firmate ‘sto contratto? – chiede Arranti.

- Tu dove sei rimasto?

- Che avete rimandato tutto a dopo le feste.

- Anch’io sono rimasto lì.

Proiettili con ruote scoppiabili, serbatoi infiammabili, piloti infartabili. Proiettili senza spazio per fermarsi.

I finestrini della lambda bloccano una 44 magnum a cinque metri di distanza, non un 7 e 62 automatico. E tanto meno un proiettile a motore.

Eppure, quasi nessuno ha paura.

- Mi ha detto Bruno – insiste Arranti – che hanno ritirato fuori la questione dei diritti. Che fosse solo per la parte economica si sarebbe già firmato.

- Sì. Mi pare di sì. – borbotta Canepari – Devo dire che non ho seguito molto. Da quello che ho capito, lì è coso… il tuo amico Manganaro, che per ragioni sue, interne al sindacato, ha deciso che quest’anno la battaglia la fa sui diritti, e da lì non si sposta. Una bandiera. Come tutte le questioni di principio, non è negoziabile.

Canepari disprezza le relazioni industriali. Sogna di posare nudo, in bianco e nero, sulla copertina di Class.

- Ma voi gli avete dato corda… – protesta Arranti.

- Beh, per non arrivare subito alla rottura.

- Però a un certo punto la rottura ci vuole… dai, sta diventando ridicolo! Dopo che a maggio siamo andati a dire a tutti: stiamo chiudendo, quindici giorni e firmiamo. Neanche negli anni Settanta perdevamo tanto tempo per un contratto…

Gli anni Settanta: quando la Zanardi, per le notti di trattativa, comprava una stecca di Marlboro da offrire ai sindacalisti, al posto delle MS che si portavano loro. E poi saliva sul tetto della palazzina uffici, a controllare se c’erano cortei. E poi scendeva a precipizio le scale, a dare l’allarme. E poi scappare, dirigenti, segretarie e sindacalisti insieme, verso i sotterranei.

- Se devono scioperare sciopereranno. – il dottore quasi urla, senza accorgersene – Io uno sciopero sui diritti non lo rischierei, ma se vogliono: si accomodino. Ognuno si prende le sue responsabilità.

- Comunque, fin dopo capodanno non se ne parla. – risponde Canepari, ansioso di cambiare argomento.

Il sogno di Arranti è tornare a un festival dell’Unità. Vedere il suo nome sui ciclostilati, appeso fuori e dentro le fabbriche, nelle bacheche, sui muri della città: ore 21, dibattito, interviene Vittorio Arranti, Acme S.p.a. La Acme: il diavolo. Erano le uniche sere in cui Vittorio si metteva davvero elegante. Fresco di parrucchiere, camicia inamidata, cravatta annodata aderente al colletto. Abito gessato scuro. Cercava di assomigliare il più possibile ai capitalisti che stanno sui libri di scuola, o nei manuali di partito. Vestiva da estremista, per meglio sorprendere la platea. Platea tutta contro, tranne due o tre lacchè coraggiosi, venuti dall’ufficio. Ma, in compenso, anche tutti gli occhi sono per lui. Il segretario regionale del partito l’hanno già visto tante volte. Un colonnello dei padroni a parlare lì da loro: mai. E poi il demonio è sempre giovane. E in quelle sere anche Vittorio Arranti era giovane. Molto più giovane dei funzionari di partito. E straordinariamente più ricco di loro. Quasi bello. Hanno una gran voglia di cominciare a fischiarlo. Qualcuno di tirargli una bottiglia, per vedere se è un uomo fatto di carne, se sanguina. Il prefetto lo ha sconsigliato di andare. Il servizio d’ordine del festival, i carabinieri, le guardie del corpo sono tesi. Come si fa a proteggere uno su un palco, scoperto da tre lati, senza transenne, davanti a cinquemila persone? Ma lui è in forma smagliante. Lui che alle conferenze stampa, in riunione, alle convention è famoso per impantanarsi, balbettare, costruire frasi che non si chiudono mai. Lì brilla. Acuminato, polemico, chiaro, corretto. Imprevedibile. Spietato nell’autocritica come negli affondi. Parla a braccio senza incepparsi mai. Perché lì, e solo lì, prova il brivido di una platea interessata alle cose che dice.

All’inizio qualcuno lo fischia. Poi parla davanti a cinquemila persone in completo silenzio. E’ una sera di settembre. Lui ha trentasette anni. Non capiterà mai più.

- Gallarà ha sempre fatto come se i giornalisti non esistessero – sta dicendo adesso, trent’anni dopo – e ora sembra che prenda le decisioni leggendo i giornali.

Il dottore ha nostalgia delle relazioni industriali, perché lì trovava una controparte, per quanto zoppa, corruttibile, bislacca. Ha nostalgia di qualcuno che se gli pesti i piedi non smette di ballare, ma ti stringe ancora di più; sudato, disperato, con la foga dei balli al palchetto. Solo coi sindacati era così. Solo i sindacati erano reali. Consumatori, azionisti, giornalisti: soltanto miraggi.

Il dottore ha nostalgia delle relazioni industriali. Ha nostalgia di relazioni.

- E poi adesso c’è anche Laini che li appoggia – sta lamentandosi Canepari.

- E ha ragione, – ribatte Arranti – ognuno il sindaco lo fa a modo suo. E se c’è una persona dolce, mansueta, è proprio Mario. E tu lo sapevi: bastava invitarlo a un paio di riunioni… così, invece, appena può vi attacca.

Di Monte lampeggia su un furgone. Minaccia tuoni, tempesta. Posso incenerirti, gente ignorante: non lo sai chi porto?

Ma il furgone continua, indolente, il suo sorpasso.

Ai tempi d’oro, Di Monte faceva i lampeggianti anche alle macchine della polizia.

- E il tuo lavoro? – chiede Canepari.

- Quale lavoro? – risponde Arranti. E si morde la lingua. Avrebbe preferito non ricadere nel solito sketch.

- La tua attività – taglia corto Canepari – Quello che fai nei giorni feriali.

- Sempre impegnatissimo. Davvero. Pensa: volevo fissare un comitato per dopo le feste, e la Zanardi ha faticato a trovare il giorno. Dal 10 al 13 sono a Parigi. Il 14 mattina riparto per Roma. Poi da Roma passo direttamente su Bari, per quel convegno di Confindustria di cui ti avevo parlato.

- Oh, scusami Vittorio!…

- No, non fa niente. – lo interrompe, per dignità – Alla fine viene Chicco Ronchi. Comunque: era solo per dirti che mi tengo in esercizio. E che per il 16, o massimo il 20, ci riuniamo. Anche per chiudere la pratica di quel pulmino della fondazione Mavila.

La tangenziale fiancheggia di nuovo capannoni industriali. Da un quarto d’ora sfrecciavano ipermercati, case popolari, discariche, buio, e adesso, di colpo, ancora un’industria. Ciminiere addirittura. Da una, con un faro rosso in punta, esce del fumo. Adesso, il 23 dicembre, in Europa, da una ciminiera sta uscendo fumo. Il faro avvisa aerei ed elicotteri della bizzarria. Nella nebbia si intravvede soltanto lui, il faro, ma Arranti sa che lì sotto c’è una ciminiera, e dalla ciminiera sta uscendo fumo. Fumo: vapore acqueo e residui. Residui di lavoro. Vorrebbe fermarsi, approfittarne, inalare.

- Ma tu quando hai sentito Maggi? – chiede Canepari, dopo un silenzio insolitamente lungo.

- Un mesetto fa. Poi ho tenuto i contatti con Cesena, che segue più da vicino ‘ste cose. Perché?

- Con Gallarà ne hai parlato?

- E che c’entra Gallarà?

- No, è che ieri eravamo alla cena dell’associazione Italia-Stati Uniti, e combinazione io ero al tavolo con loro.

- Loro chi?

- Maggi e Gallarà. E sentivo che parlavano di un pulmino. Non sono se sia lo stesso.

Di Monte sa che non bisogna dar mostra di seguire la conversazione, né togliere gli occhi dalla strada. Ma si gira a guardare Arranti.

- Certo che è lo stesso – risponde la maschera del suo capo – Di quanti pulmini vuoi che abbiano bisogno?

- Mi è sembrato di capire che Gallarà gliel’abbia promesso. Che gli abbia detto di comprarlo senz’altro, e intestare la fattura a noi.

- Ah è possibilissimo.

- Però sarebbe da stronzi.

- Sarebbe da stronzi ma si è sempre fatto – Arranti difende i prepotenti, la categoria a cui è appartenuto per quasi tutta la vita.

- Lui ha la responsabilità di quarantamila miliardi di fatturato.

- E si prende anche la responsabilità di trenta milioni di pulmino.

Se non si è ingordi. Se non si è irresistibilmente, eroticamente attratti da decisioni da pochi spiccioli, non si arriverà mai a muovere i miliardi.

- Glielo vai a dire tu che ha sbagliato? – provoca Arranti.

- Certo!

- Ma non farmi ridere…

- Io mi incazzarei – insiste l’altro – Ma per davvero. Perché non fai una bella telefonata a Berardi?

- No.

La vecchiaia, per Arranti, vuol dire: meno ore in piedi, libri più corti, non riuscire a infuriarsi.

Di Monte accelera, affinché il sedile avvolga meglio il suo dottore. Un dottore vuoto.

Lo stanno svuotando del potere, come si vuotano le mummie dalle viscere. Di Monte sta zitto. Potesse davvero non sentire, ogni tanto. Almeno non capire.

Arranti ha congedato Canepari. Auguri/auguri. Salutami anche/salutami anche. Poi si è chinato, a tarda sera, a frugare fra i giornali del mattino. Gli piace tenerli per terra, i giornali. Calpestarli con le suole.

L’autista salta bruscamente due corsie, sorpassa a destra, dalla parte dei lentissimi. Si incrocia con una lambda che fa la manovra opposta. Si sfiorano ma non si toccano. Sembra un balletto senza musica. Poi la musica arriva: da dietro, suonano. Arranti si rialza con Repubblica e l’Unità in mano. Di Monte, finalmente, con cento metri liberi davanti al muso, accelera deciso.

- Piano piano, non abbiamo fretta – il capo si sforza di protestare.

Arranti si addormenta quasi sempre al decollo degli aerei. Gli piace sentirsi trasportato il più velocemente possibile da un’altra parte. Il corpo fa un po’ fatica ma il sedile, con dolce fermezza, insiste. Ti vogliono con urgenza in un altro posto, dottor Arranti. Dormi, dormi sereno. Ti ci portiamo noi. Dentro una zucca, una slitta, un aereo, una lambda. Tu dormi sereno, ti ci portiamo. E’ generoso da parte tua lasciarti portare, affidarti a noi. Grazie. Il tuo contributo è questo: lasciarti portare. Il nostro, ben più modesto, consegnarti dove altri, ansiosamente, ti aspettano. Hanno bisogno di te.

- Ha paura di non arrivare in tempo per la cena? – borbotta Arranti, per stuzzicare l’autista.

- No no. Percarità. – risponde Di Monte, ferito nell’orgoglio – mia moglie finché non chiamo non butta la pasta. E anche mio cognato è avvisato. Gli ho detto: stasera, se venite, sono affari vostri.

Bip! Bip! Bip! Rallentare. Ghiaccio sulla carreggiata. Di Monte, stizzito, disabilita l’allarme. Che ne sa, quello, del ghiaccio?

- Piano, piano… – insiste Arranti, ma la sua voce sfuma.

Quando il dottore dice: “piano, piano” Di Monte solleva leggermente l’acceleratore. Segnala che, pur riconoscendo un comando che vuol essere disobbedito, lui rispetta la forma comando. Poi subito ripigia, col piede pesante, lampeggia, lascia indietro una BMW da 260 cavalli.

Il giorno che tolsero ad Arranti ogni incarico operativo; il giorno che a Di Monte sembrava di sanguinare – anche se lo sospettava da un pezzo; il giorno che tutti vennero in sala autisti a fargli coraggio, o i complimenti – i veri amici e gli ipocriti; quel giorno, quella sera, si accorse di aver impiegato cinque minuti in più nel percorso casa-ufficio. Avvampò di vergogna, gli si annaquarono gli occhi. Giurò a se stesso che non si sarebbe mai più ripetuto. Mai più. Non avrebbe offeso il suo capo smettendo di aver fretta. Ora il dottore si è addormentato. La testa all’indietro, la bocca aperta, le gambe larghe: una distesa, una piegata. I capelli bianchi radi e spettinati.

A un occhio inesperto, gli autisti sembrano più manager dei loro padroni. E’ la corporatura: hanno spalle più larghe, sono meno vecchi e non portano gli occhiali. Addosso a loro i vestiti calzano meglio, sembrano più adatti a prendere decisioni. La gruccia conta più del taglio, con buona pace dei sarti. E poi la loro è un eleganza facile: copiano i manager dei telefilm. O forse sono i costumisti dei telefilm che, da sempre, scambiano gli autisti per manager.

Il manager alla guida guarda il vecchio che gli dorme accanto. Rallenta. Da dietro fanno gli abbaglianti, ma lui neanche se ne accorge. Ha la lambda gravida di un dottore addormentato. L’unica cosa importante è lasciarlo riposare. Guida in modo irriconoscibile, sta nella corsia dei veicoli lenti, guarda più il dottore della strada, attento agli scossoni, alle frenate, alle buche, ai tombini. Alza il climatizzatore perché faccia più caldo, gli mette la cintura di sicurezza perché non crolli, e si svegli. Poi comincia ad ascoltare il suo respiro. Quando il dottore riemergerà dal sonno, dovrà trovarsi almeno ai centottanta allora. Dovrà conservare l’impressione che, in tutto il tempo che ha dormito, c’è sempre stata fretta.

La tangenziale sta finendo, ma il dottore non può vederla.

Il dottore si addormenta di botto, nelle posizioni più scomode. E per un po’ niente lo sveglia. Anche l’abbandono, completo e fiducioso, sembra quello dei bambini. Di Monte è convinto che la notte, quando tornano tardi, lui potrebbe, una volta, prenderlo in braccio, e scuoterlo solo davanti al water, per far pipì, e tenerlo mentre fa pipì, e poi riprenderlo in braccio per portarlo a letto. E arrivato a letto dormirebbe già di nuovo così pesantemente che mettergli il pigiama sarebbe un impresa, e lui bofonchierebbe cose come “Prendilo!” o “brucia, brucia”. Cose che non c’entrano con la realtà, ma col sogno che sta sognando in quel momento.

Arranti è un bambino con la pelle liscia. Come se tutta la merda che ha attraversato non solo non gli fosse rimasta attaccata addosso, ma l’avesse idratato.

Mentre la lambda scivola sulla sopraelevata, all’altezza del terzo piano delle case popolari, Arranti sogna.

Un sogno breve. E’ insieme a Wendy sotto un tavolo. Sono sdraiati. Si abbracciano. Una tovaglia li separa dal mondo. Si intravedono piedi umani.

Lei allunga il muso. Tiene la giugulare bene in mostra, accessibile. Vuol dire: mi fido. Di te mi fido. Sto così perché tu possa uccidermi. Mi piace la sensazione che non lo fai.

E intanto, a forza di allungarsi, gli raggiunge il collo. Il collo di lui. E comincia – lenta, sistematica – a leccare.

Ogni tanto si blocca.

Sembra indecisa: sarà giusto? Così tanto, così bello, sarà giusto? Ce lo meritiamo? Nell’incertezza dimentica di muovere la lingua. Sottile come un’ostia, calda, viva. Per il dottore quel tepore sul collo è una benedizione.

A un tratto, però, anche lui è preso dal dubbio. Le dice: “Non credi che stiamo esagerando, forse Anna sarà gelosa…”.

Per loro due questa non è una frase ambigua. “Forse Anna sarà gelosa” significa: “Anna potrebbe di sentirsi derubata di te, cagna Wendy, e soffrirne”.

La giovane lupo lo fissa dritto negli occhi come nella realtà, per un pudore proprio ai cani, non fa mai. E, come in altri sogni prima di quello, risponde. Risponde: “No. Non credo. E poi: tu hai più bisogno di me.” Lo dice accostando il lungo naso umido alla guancia di lui: “Tu hai più bisogno di me. Tu hai più bisogno di affetto…”. La sua voce è un’emozione ancora incandescente.

Arranti ha sentito parole così una volta sola nella vita vera, e poche volte anche nei sogni.

- Finalmente Wendy… – mormora il dottore – ho tanto freddo e tanta sete. Tanto freddo…

Di Monte accelera.

Quando si sveglia, l’uomo che ha gestito ristrutturazioni da trentamila persone ha gli occhi umidi. Tiene lo sguardo rivolto verso il finestrino. Sta rannicchiato sul sedile, per trattenere il calore del cane. Ha ripreso a piovere. La temperatura è scesa. E’ nevischio ormai. Si riconoscono i cristalli, ma si scioglie subito.

- Da bambino – dice Arranti, la voce ancora impastata dal sonno – mi dava fastidio vedere la neve sciogliersi.

Si infilano in un vicolo del precollina. Negli anni Settanta decidevano quelle svolte all’improvviso. Alla questura le comunicavano in ritardo, perché della questura ci si fidava fino a un certo punto.

Ora passano di lì per evitare il traffico. La strada è stretta. I muri alti, senza marciapiede, la fanno sembrare ancora più stretta, labirintica. Intestino. Si inerpica prima ripidissima, poi quasi pianeggiante. I fari illuminano muri e ancora muri. Fanno più effetto i sessanta all’ora qui che i centottanta in autostrada. Splendide ville liberty, arroccate una sull’altra. Vetri colorati, torri, guglie.

- La Zanardi ha detto qualcosa dei regali?

- No – risponde l’autista – ma nel baule c’è l’ultimo giro. Per quest’anno abbiamo finito.

- E’ arrivato quello di Strati?

- No. Non mi pare. Devo controllare.

Quest’anno i regali sono i più costosi di sempre.

Gli altri anni puntavano sui bigliettini: lunghi, fitti, scritti a mano. Qualche volta costrigevano i bambini a firmarli, come se Arranti fosse uno zio lontano. Alle mogli chiedevano conserve. L’amministratore delegato della Ferrari gli regalava il suo genepy. Le Ferrari le fanno gli altri, il genepy lo fa lui. Il genepy richiede faticose passeggiate, e decisioni irrevocabili sulla quantità di zucchero.

Quando il dottore dirigeva un’industria, riceveva pochi regali industriali. E quei pochi la Zanardi li rimpacchettava per la tombola dell’ufficio. Gli anonimi Gucci, i Cartier, le casse di Veuve Clicquot che chiunque può comprarsi, venivano sorteggiati fra i collaboratori. «87… 12… 32… 4…», Arranti estraeva i numeri e Canepari, come tutti gli altri, pendeva dalle sue labbra.

Quest’anno di scritto a mano c’è rimasto solo: “Caro Vittorio”, e la firma al fondo. A volte nemmeno quello. Al posto del bigliettino hanno messo un biglietto da visita, segnaposto per una relazione che non c’è più. E poi enormi, costosi regali, per non perder tempo a pensarci su. Invisibile, due tornanti più in alto, un camion fermo ostruisce la strada.

Arranti ha voglia di telefonare a qualcuno.

Sa a memoria due soli numeri: casa e ufficio. Casa-Anna, ufficio-Zanardi. Ma Anna ha proibito di chiamarla. Chiama l’ufficio.

Sono le otto meno un quarto del ventitré dicembre. Squilla il telefono in un ufficio buio.

- E’ già uscita – conclude Arranti, posando il cellulare. Meglio così.

Una volta si sarebbe preoccupato, l’avrebbe cercata a casa. Una volta la Zanardi non lasciava mai l’ufficio prima delle otto, più spesso le nove. Ma adesso non è più tempo, è giusto che si riposi.

Dovrò cercarle un lavoro, pensa Arranti. Due anni al massimo, e poi lascio. “Presidente” è una carica che può essere forte se si è proprietari, ma è debolissima per un dipendente.

Il camion ha le quattro frecce che lampeggiano.

E fra due anni la Zanardi sarà ancora troppo giovane per andare in pensione, e troppo frusta per tutto il resto. Soprattutto: mai più segretaria. Nessuno la vorrebbe. Nessuno di importante, per lo meno. Nessuno compra mutande usate.

Il camion, un tornante più in alto, è fermo col motore acceso.

Arranti dovrà trovarle un posto da impiegata. Ha fatto molto per lui, e lui lo sa. Sta soffrendo molto per lui. E lui lo sa. Sa che non mangia più in mensa, per vergogna delle altre segretarie.

La sagoma del camion si para davanti come un grossa porta nera.

Di Monte frena. Non inchioda, ma frena molto bruscamente. Tanto è piacevole accelerare, tanto spiacevoli le frenate. Arranti lo sa. Arranti che ha accelerato quarant’anni, e da un anno frena. Arranti sente il suo peso, tutto il suo corpo spostarsi dal sedile al braccio dell’autista, che è scattato per cercare di tenerlo.

La porta nera si avvicina rapidamente al muso della lamba. Senza rumore.

Poi calma. L’ABS non si attiva mai con Di Monte.

Di Monte sono vent’anni che frena su ghiaccio senza bloccare le ruote. Ma vorrebbe un led, o una scritta sul terminale che lo testimoniasse: “ABS: non in funzione. Cinture: inutili. Bravo autista!”

La lambda è ferma a mezzo metro dal camion.

Un camion assurdo, in viale Catone, alle 20:15 di un ventitré dicembre.

Di Monte cerca lo sguardo del dottore. Arranti sembra non capire cosa è successo: – grazie – dice, riferendosi al braccio che gli ha impedito di scivolare. Di finire anche lui, come un cellulare, sotto il sedile.

In questi casi, il regolamento prescrive di non scendere.

Di Monte scende.

Una folata di aria fredda raggiunge il cuore dell’abitacolo. I venti gradi sono finiti. Fuori il mondo è a meno uno. Contro tre metri cubi riscaldati stanno milioni di metri cubi, tutta l’Italia del nord e l’Europa continentale, a meno uno. Basta aprire la portiera perché la lamda scenda a diciotto, mentre fuori non cambia niente. Non c’è mediazione. Il fuori è infinitamente più forte, e sterminato, del dentro.

Due uomini si avvicinano a Di Monte.

Arranti non li vede. Ha lo sguardo fisso sui lampeggianti del camion.

Un terzo sbuca da dietro.

In questi casi, il regolamento prescrive di restare in macchina perché è blindata. 35 millimetri la lamiera, 8 i finestrini. Gomme piene.

Di Monte si è lamentato più volte dell’alleggerimento dei finestrini, da 15 a 8 millimetri. Un tempo gli piaceva, quando era solo in macchina, fermarsi a chiedere informazioni. E tirar giù quel finestrino incredibilmente spesso.

Adesso, là fuori, Di Monte ha solo un completo di lana da 1 millimetro, e una camicia. Neanche il cappotto. Si vede il fiato denso, bianco, illuminato dai fari.

Ma non è tempo di sparatorie.

- Roba da pazzi – dice, rientrando in macchina – Scaricano una lavatrice… così dietro una curva. Io gliel’ho detto: se non ero più che pronto a frenare vi ammazzavo. Ma quelli se ne fregano. Sono giovani. Comunque hanno finito. Dicono che vanno via subito.

Il dottore fa sì con la testa. Quando gli altri parlano fa spesso sì o no con la testa. Ma le oscillazioni sono così piccole, e così lunghe, che non si capisce più se sono dei veri “sì”, o “no”, oppure dei sì e dei no che gli sono rimasti dentro; che avrebbe voluto dire durante la sua lunga carriera, e non li ha detti, e continuano a venir fuori, come uno spurgo.

Il camion, lentamente, riparte. La lambda, lentamente, dietro. Le luci della città sono finite. Gli abbaglianti abbassano lo sguardo quando incrociano un’altra macchina. Di Monte lo abbassa volentieri, a quest’ora in collina non ci sono gitanti. A quest’ora, ci si incrocia fra residenti.

Di colpo finisce anche la nebbia. Si vede Superga, affacciata su un mare lattiginoso. Si vede il cielo notturno, carico di nubi. E’ l’arrivo di un fronte freddo. Una nube, più luminosa delle altre, fa sospettare la luna.

Temperatura esterna: meno tre gradi; Temperatura interna: venti gradi. Attenzione, rallentare, ghiaccio sulla carreggiata.

La gomme della lambda fischiano sulle curve della collina, ma si sentono solo da fuori. Le sentono i cani delle ville che, ben distanziate, protette da alti cancelli e lunghi viali di ingresso, costeggiano la strada dell’antico traforo. E abbaiano.

Si intravedono splendidi tetti alla francese, ma non sono ville, sono le case dei custodi. Ci sono parchi invisibili, qui. Interi parchi racchiusi da muri. E dentro i parchi il silenzio. Con siepi che si potano da sole, e vialetti di ghiaia bianca. E incroci, e balconi su Torino.

Telefona Anna: – Se non ti dispiace amore, noi cominciamo a mangiare.

- Ma siamo arrivati.

- I bambini hanno fame. Stanno finendo i grissini.

- Siamo al curvone.

- Sì ma noi cominciamo lo stesso, ho già fatto servire i tortelli.

Si era innamorato di Anna quando era l’unica a opporgli resistenza. Si era innamorato di lei quando gli altri gli negavano la percezione della forza delle cose.

Se cercava di sollevare qualcuno, quello saltava per agevolargli il movimento. Se decideva di spostare un blocco di granito a mani nude, glielo svuotavano di nascosto. Avesse camminato sull’acqua si sarebbero tuffati in centinaia, e da sotto, in apnea, con le palme delle mani dipinte di blu, lo avrebbero retto. E se poi lui, euforico, avesse urlato: “Visto che era possibile? Seguitemi!”, sarebbero morti affogati a centinaia. E lui, probabilmente, non lo sarebbe neanche venuto a sapere.

In quegli anni, qualunque donna avrebbe simulato l’orgasmo.

Anna no.

Per questo l’aveva amata e sposata. Ora però, quando di colpo cose e persone hanno preso a seguire una logica nuova, ora sarebbe bello se Anna si mostrasse un po’ più cedevole, per compensare.

Oggi se Arranti decide di sollevare un blocco di polistirolo subito dieci nemici corrono a sedercisi sopra. Se vuole attraversare un fiume a nuoto, i morti, i calpestati in tanti anni, gli pigliano i piedi e lo trascinano giù.

Un mondo normale, con la sola forza di gravità, continua a essergli negato.

Anna non è una moglie che odia il marito perché ha finito la carriera. Questo no. Ma compensare neanche. Lampeggia la luce gialla circolare, si apre il cancello di casa.

Arranti abita una villa pulita e ordinata, ma non splendida. Senza crepe nell’intonaco, o polvere sui mobili. Senza viste mozzafiato, o parchi secolari.

La villa di un dipendente che ha guadagnato parecchio.

Le finestre al primo piano, la sala da pranzo, sono illuminate. E’ illuminato anche il mansardato di Giorgia. Se l’è dimenticato, o non è scesa?

L’abete in cortile, intermittente. Rumore di ruote sulla ghiaia. La lambda si ferma col motore acceso. Di Monte corre come un disperato intorno al cofano, ma non arriva in tempo. Arranti poggia un piede per terra.

L’aria ha un odore diverso dalla città. Qualità della vita.

Di Monte prende il cappotto e lo porge al dottore. Arranti lo prende senza infilarlo. “Se lo vede la signora…” pensa l’autista, mentre trasporta i sacchetti dei regali.

– A che ora domani, dottore?

– Domattina sto a casa. – risponde Arranti – Se ne ha bisogno mia moglie, la chiamo. Altrimenti ci vediamo alle tre.

– Perfetto. Arrivederci dottore.

- Arrivederci.

Wendy abbaia. Dentro il salone, i commensali restano seduti. Maria ha appena servito il piccione in crosta. Wendy è corsa alla finestra e abbaia per il suo padrone. Ignora il piccione.

Di Monte pensa: “Questo sì che è un cane”.