Cattivi/Angeli e dannati in un carcere di ordinaria follia

Da mauriziotorchio.

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Angeli e dannati in un carcere di ordinaria follia

Antonio Pascale. Il Messaggero, 4 aprile 2015.

Iniziate il romanzo di Maurizio Torchio, Cattivi (Einaudi), poche parole, poche righe e vi trovate in un luogo chiuso, impermeabile: è un carcere. Superate ben presto l'angoscia e l'eventuale claustrofobia, perché capite immediatamente che quel posto è un luogo metafisico, e poi, soprattutto avete davanti a voi uno scrittore incredibilmente bravo: ha stile, forza, soprattutto è rigoroso, non usa fronzoli, non dice cose ovvie, nemmeno intende fare prediche. Vuole farci entrare nel carcere, e tuttavia ha intenzione di dirci alcune cose che non sappiamo, nonostante non siano mancati film e libri. A lui interessa spogliare questo luogo dalla retorica che, come una cappa, lo ricopre, e mostrarci l'uomo così com'è, quando è rinchiuso, costretto a obbedire a leggi costrittive. All'inizio, c'è una voce narrante che racconta, ancora non sappiamo chi è, cosa ha fatto, ma è lì da anni, è un ergastolano, conosce i rinchiusi uno per uno e a poco a poco, compone un puzzle, viene analizzata la struttura del carcere, chi conta di più, chi di meno, chi è odiato, chi è rispettato.

Saltano all'occhio alcune dinamiche: «Ogni volta che dal continente arriva una nuova infornata di rinchiusi, per prima cosa toglievano le dentiere. Poi davano poca acqua, e cibo di merda. Nel giro di una settimana i capi, che avevano quasi tutti una certa età, si trasformavano in un mucchio di vecchi». Oppure quando si consiglia a un rinchiuso che per punizione verrà picchiato dalle guardie, di dormire senza rimboccarsi le coperte, con una lametta in bocca. Quando le guardie arriveranno si lascerà colpire, poi si dovrà tagliare la bocca con la lametta: il sangue fermerà il pestaggio.

Ma non si limita a questo il libro.

C'è un colpo di scena, veniamo a conoscenza che la voce narrante è un sequestratore. Non un pezzo grosso, in realtà è l'ultimo dei carcerieri, ha tenuto in catene una giovane ragazza, figlia di un magnate del caffé, la chiama continuamente principessa. Dunque le regole della carcerazione che lui ha adottato per la principessa - e che ci appaiono brutali - ora sono adottate nei suoi confronti - e ci appaiono brutali. L'uomo è in regime di fine pena mai perché ha ammazzato una guardia carceraria - in effetti, non ha imparato niente, solo a essere brutale. L'unica cosa che però ha conservato è il ricordo della principessa, incredibile a dirsi, ma è l'unica storia d'amore che abbia mai vissuto. Da qui in poi, capiamo che il libro di Torchio è anche un libro d'amore - sono tre le storie d'amore - certo particolari, a volte brutali, altre volte commoventi, tuttavia interesserebbe anche un primatologo o quelli che come lui stanno cercando di capire quali sono le forze che regolano il nostro cammino.

Questo libro attraversa temi importanti che dovrebbero entrare nel dibattito pubblico. C'è l'amore e soprattutto c'è la pena. Siamo sicuri che un carcere così fatto - e ce ne sono - convenga alla società? Un carcere che rinchiude le persone, dove per molti anni buttiamo la chiave, ecco, poi, questo tipo di carcere produrrà, per forza di cose, persone incapaci di empatia, costretti dalle brutali leggi di costrizione a diventare ancora più brutali. Conviene alla società - e parliamo da egoisti, individualisti - ritrovarsi questi "cattivi" per strada? Torchio si interroga continuamente, attraverso il suo personaggio, intorno alla suddetta domanda ed è un peccato che in pochi si siano accorti di questo romanzo che ci pone davanti a una questione fondamentale, se siamo Cattivi con i Cattivi possiamo mai essere noi stessi Buoni?


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