Cattivi/Diventare tutt’uno col carcere

Da mauriziotorchio.

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Diventare tutt’uno col carcere

Matteo Fontanone. 404: file not found, 24 febbraio 2016.

Dedicare un romanzo alla vita in prigione, oggi, è un atto di coraggio. In Italia non esiste un vero dibattito sul carcere: sono pochi gli intellettuali che ne parlano e ancora meno i media che se ne occupano (da citare, uscito nel 2015, il saggio Abolire il carcere di Luigi Manconi, edito da Chiarelettere). A rompere il silenzio, talvolta, sporadici picchi di attenzione quando si ripresentano problemi reiterati come il sovraffollamento o l’inadeguatezza delle strutture. Sono le rare emersioni di un mondo coperto da uno spesso strato di silenzio: le notizie su quanto succede laggiù si consumano in fretta e vengono riassorbite dall’opinione pubblica senza una particolare rielaborazione. La prigione riesce ancora ad essere un (non) luogo esotico, un mistero le cui dinamiche i più non conoscono, e se le conoscono non è certo per un buon motivo. Secondo il pensiero comune, il carcere ha fini coercitivi e non rieducativi, serve ad allontanare dalla società i suoi figli più pericolosi.

A fronte di tutto questo, Cattivi di Maurizio Torchio, Einaudi, è una cattedrale nel deserto nonché, a mio parere, uno dei prodotti letterari più interessanti dell’anno appena trascorso. Un romanzo sul carcere il cui protagonista è un’enciclopedia vivente della prigione. Arrestato per contrabbando ma presto riconosciuto come il sequestratore di una ricca ereditiera, l’io narrante finisce per essere condannato all’ergastolo dopo aver ucciso un secondino in un raptus di follia, durante il trasferimento da una cella all’altra. Cattivi è il quaderno in cui butta giù in ordine sparso i propri appunti e ricostruisce in maniera del tutto arbitraria la storia della sua vita. Dai mesi del sequestro trascorsi in compagnia della donna in una grotta, nient’altro che una prefigurazione della futura detenzione, all’amore mai sopito per l’ostaggio; dalle pene durissime nel carcere dell’Isola, un luogo che sembra l’allegoria infernale di Pianosa, fino al definitivo trasferimento nella cella di un altro carcere non meglio precisato che con tutta probabilità sarà anche la sua tomba.

L’io narrante – non è dato al lettore conoscerne il nome – è pura voce, come i migliori personaggi dostoevskiani. Dal fondo del suo buco nero, una cella di massima sicurezza in un carcere di massima sicurezza, sconta la sua pena dimenticato da tutti. La sola cosa che gli rimane da fare è riflettere sulla propria condizione, tornare con la mente sui suoi passi, vivisezionare nei più insignificanti dettagli il tempo passato per riviverlo centinaia di volte e soltanto in quello spazio mentale trovare conforto.

Rinchiuso in galera da decine di anni, il protagonista è ormai diventato un tutt’uno col carcere. Conosce alla perfezione i meccanismi che lo animano e le sottili vibrazioni che lo attraversano: nonostante sia in isolamento, sa interpretare con precisione scientifica i brusii che sente da lontano, è in grado di saggiare l’efficacia delle proteste di cui ascolta solamente gli echi. Non può vederli ma immagina i propri compagni di detenzione, ricorda i momenti vissuti insieme, ne ripercorre le singole storie. Oltre ai carcerati, in una sorta di inquietante specularità, ci sono anche i secondini, ingabbiati a loro volta in una prigionia alla seconda ancora più subdola di quella canonica. La voce narrante, la cui conoscenza di quanto accade nel carcere a rigor di logica non dovrebbe andare oltre alla propria cella, assume invece una focalizzazione zero, si fa onnisciente. Capace di ripercorrere con l’esattezza di un chirurgo il proprio vissuto così come di raccontare quanto accade oltre le quattro mura che lo imprigioneranno per sempre. Nell’affidargli la parola Torchio è scomparso, ma appena ci si allontana dal testo la sua mano si nota eccome. Ciò che più di ogni altra cosa rende Cattivi un libro straziante, infatti, non è la riflessione sull’ergastolo, non sono i soprusi delle guardie né l’alienazione del protagonista ancora innamorato della donna custodita per tutta la durata del sequestro, ma il lirismo assoluto con cui l’autore riesce a rimescolare i tanti fili narrativi per tessere un’opera più viva che mai, in grado di mettere in moto una serie di transfert che il lettore meno temprato, in alcuni passaggi, faticherà a controllare. Anche un elemento apparentemente inoffensivo come il pane in questo universo parallelo diventa motivo di disgusto, traccia indelebile del non essere liberi. La dentiera è un ricatto, il giornale un oggetto contundente, l’accappatoio un viatico sicuro verso il suicidio.

Ossessionato dalla ricerca della claustrofobia, Torchio indaga silenziosamente gli effetti che il carcere comporta sullo spazio-tempo degli uomini rinchiusi laggiù. La cella, l’ora d’aria, il cortile, gli spostamenti, gli anni che trascorrono e la vita che evapora nell’illusione dolce che ci sia ancora spazio per un dopo. Tutto cambia, si dilata e si allontana: il di qua assorbe il di là fino a farlo scomparire, il ricordo della propria casa si sfoca e casa diventa la cella. Addirittura le visite dei riescono ad essere motivo di stress e frustrazione più che di gioia. Si tratta di un ridimensionamento che tocca anche il vocabolario e costringe l’ergastolano alla produzione di un lessico nuovo: a vecchi significanti corrispondono significati inediti. Le cose, gli oggetti nella loro fisicità e concretezza materica, assumono portate inedite e inimmaginabili: persino il cucchiaino di metallo e la tazzina di vetro per il caffè possono diventare una ragione di vita, per chi è condannato alla plastica vita natural durante. In fin dei conti, anche l’aggettivo che dà il titolo al libro subisce una traslazione: nella storia raccontata da Torchio di cattivo non c’è proprio nessuno. Chiunque lo fosse, lo era prima di finire dietro le sbarre: la detenzione piega tutti, nessuno escluso.


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