Cattivi/Guardie e ladri, secondo Maurizio Torchio

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Guardie e ladri, secondo Maurizio Torchio

Alessandra Bonetti. Cultweek, 28 febbraio 2015.

E’ sempre difficile intervistare un autore il cui libro - Cattivi, lui è Maurizio Torchio – ti è piaciuto tanto. Si finisce per fargli un sacco di complimenti e non saper bene cosa chiedere. Meglio allora partire dall’inizio.

Pomeriggio in libreria, sguardo vagante fra le novità, la mano afferra, abbandona. In cerca d’ispirazione, mentre ho tra le mani la copertina di un uomo a torso nudo con le braccia sollevate, mi passa accanto la libraia: «Il libro è tutto in quella foto» mi dice. «Sì è così, apri le braccia e immagina di toccare con le mani le pareti».

In quel gesto ritrovo l’essenzialità, la durezza, la sospensione del tempo delle prime righe:

Ti dicono: Orecchie. Tu pieghi le orecchie e ti giri, prima a destra, poi a sinistra. Narici. Inclini la testa all’indietro, per facilitare l’ispezione. Bocca. Apri la bocca. Le parti del corpo si schiudono a comando.

Lingua, gengive, mani, ascelle. Il controllo è lungo e accurato. Gesti meccanici, sempre uguali, che lasciano spazio ai pensieri. Quelli di Toro, il detenuto che torna in cella dopo un permesso, e quelli di un ergastolano senza nome che dal buio del suo isolamento dà voce al mondo della galera: i reclusi, le donne dei reclusi, le guardie penitenziarie, il comandante, i cani anti droga. Tutti protagonisti di una discesa agli inferi.

Cattivi è un romanzo sul carcere come racconta bene Lucia Castellano (la sua recensione qui sotto, ndr), ma è anche un romanzo esistenziale sull’uomo: «A volte parlavamo anche tutta la notte, come in carcere. Più un posto è vuoto, più lo si riempie di parole».


Come prima cosa, la domanda più ovvia perché riguarda l’aspetto che colpisce di più: come è nata l’idea di scrivere un romanzo sul carcere?

Da anni ascolto Radio Carcere su Radio Radicale, non perché sia mosso da un particolare attivismo ma perché mi piacciono le storie vere. E quello è un contenitore ricchissimo di parole e di vita. E’ stato così che dopo Piccoli animali (il romanzo dell’autore pubblicato da Einaudi nel 2009, ndr), quando ho cominciato a lavorare a un nuovo libro queste voci hanno cominciato a prendere corpo. Non sapevo bene di cosa avrei parlato, ma sapevo che la storia sarebbe stata chiusa in un carcere.


Il carcere come luogo del racconto. Perché?

Lo stare rinchiusi, in carcere come in qualunque altro ambiente totalizzante, cambia il modo di raccontare se stessi, il passato, il futuro, le speranze, le esperienze. Io ho fatto il servizio civile in una comunità per tossicodipendenti e facendo le dovute differenze ho sperimentato il senso di stare dentro una comunità chiusa: chi è sempre lì, la domenica, il ferragosto, nei momenti vuoto, coltiva un rapporto di odio e amore verso una comunità che ti rinchiude ma al tempo stesso ti contiene. Non c’è confronto con il mondo aperto e questa mancanza genera ingenuità. Dentro tutti sono ingenui e anche gli operatori.


Da uomo libero, lei dà voce a un ergastolano. Che tipo di materiale ha usato, per ricostruirne la psicologia?

Ho impiegato cinque anni per trovare la voce giusta. All’inizio, avevo cominciato a scrivere un classico romanzo carcerario dove succedono tante cose con una pluralità di personaggi che parlavano in presa diretta; poi m sono accorto che gli unici pezzi che funzionavano bene erano quelli raccontati dal fondo dell’isolamento, quindi più filtrati, mediati e ho ricominciato tutto da capo. Nel frattempo leggevo, mi documentavo. Sono tanti i libri che hanno plasmato Cattivi: alla fine del libro li cito nei ringraziamenti perché sono stati i miei compagni di viaggio.


Il primo nome della lista è Jack Henry Abbot, una scelta solo alfabetica?

L’elenco è effettivamente in ordine alfabetico, ma Nel ventre della bestia di Abbot è un romanzo che mi ha influenzato: per il tono di voce e per la storia umana. Abbot fu una fonte di Norman Mailer quando scrisse Il canto del boia. Abbott era in carcere per rapina, poi grazie a questa amicizia divenne scrittore, Mailer lo fece pubblicare e intorno a lui nacque un movimento di opinione che gli fece ottenere la libertà condizionata. Ma pochi giorni dopo, durante una rissa, uccise un uomo e tornò nel mondo da cui arrivava.


Durante le sue ricerche, è stato anche al carcere di Bollate. Dai libri alla realtà è cambiata la sua visione del carcere?

Sono stato un turista carcerario, ma visitare una prigione mi ha aiutato ad affinare la sensibilità e, soprattutto, a selezionare, a togliere cose fra la quantità di storie e materiali che avevo accumulato.


Bollate è un carcere modello, molto diverso da quello in cui lei ambienta la sua storia…

Sono andato a Bollate perché sono potuto andare solo lì. E forse non è un caso. Ma anche un paradosso: quello che chiamiamo un carcere modello è in realtà un carcere legale che segue le leggi che lo Stato si è dato, e invece brilla nell’universo penitenziario. Ma Bollate è abitato da persone che di carceri che ne hanno girati tanti e una delle cose che si impara è ricostruire le biografie carcerarie, vite che si sono costruite fra tante diverse reclusioni: a Bollate non parli solo di quel carcere lì ma dei carceri della vita.


La sua scrittura è aspra, urticante, ma c’è anche tenerezza. E’ vero che alla casa editrice voleva proporlo come una storia d’amore?

Questa è stata una battuta, perché non volevo che lo si trasformasse in un libro di denuncia o una dissertazione metafisico esistenziale. Quello che mi interessava era raccontare come i sentimenti, tra cui l’amore, si trasformano in situazioni estreme. Il carcere è un luogo di poche esperienze e se ciò che fa crescere nella vita sono le esperienze, in un posto così si resta adolescenti. Il carcere è una casa matrigna che genera dipendenza, è ingegnerizzato per creare dipendenza, e la gerarchia, al di là degli aspetti repressivi, funziona bene quando si obbedisce agli ordini. Se per cinque, dieci, vent’anni della vita ti abitui a dover chiedere tutto, dall’andare in bagno al francobollo, non puoi pensare che questo non intacchi le persone.


Lo sguardo distaccato con cui racconta tutto questo dipende dalla serietà del luogo?

Non consapevolmente. Non sono uno scrittore di getto, ogni pagina che scrivo è rivista molte volte, perché sento una grande responsabilità verso il lettore e il suo tempo di lettura, ogni parola che c’è deve essere ben giustificata.


Lei ha conosciuto Lucia Castellano, quando era direttrice al carcere di Bollate. Cosa si aspetta di leggere nella sua recensione?

Non lo so, ma non vedo l’ora di leggerla. In realtà, devo chiedere scusa a Lucia Castellano che ho un po’ tradito. Avrei voluto raccontare di più le persone del carcere: direttori, cappellani, magistrati o altri che “hanno le chiavi”. C’è una grande disparità di rappresentazione fra i detenuti e gli operatori penitenziari: su venti memorie di reclusi se ne trova al massimo una che parla di tutti gli altri e gli stereotipi su di loro sono forse ancora più falsi. All’inizio, ci ho provato, ma poi li ho tolti perché mi piaceva fare un libro in bianco e nero e, volendo semplificare, guardie e ristretti hanno più cose in comune delle altre persone che abitano il carcere.


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