Cattivi/Lo sguardo straniante del recluso

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Lo sguardo straniante del recluso

Giovanni Turi. Vita da editor, 18 marzo 2015.

Sin dalle prime pagine di Cattivi (Einaudi) di Maurizio Torchio si resta colpiti dalla scrittura lacerante e densa, dallo sguardo straniante del recluso che narra in prima persona e affronta una quotidianità svuotata di tutto e dunque riempita di voci e dicerie, di brandelli delle esistenze altrui, di variazioni minime delle consuetudini, di ricordi: «Io fra cinque anni, se sarò ancora vivo, avrò passato più tempo dentro che fuori. Dal fuori ormai ho raschiato il raschiabile. Sono andato nell’immondizia a frugare. Pezzi di vita che all’inizio mi erano sembrati inutili, o schifosi, li ho ripescati con gioia».

Comandante e le guardie, Toro e il suo protetto (il ragazzo) o gli Enne con cui deve contende la gerarchia tra i prigionieri, la professoressa e la Principessa: nessuno o quasi ha un nome in Cattivi, perché un mondo chiuso e parallelo deve darsi le sue regole e ribattezzare ciascuno. Non conosciamo nemmeno il nome di chi racconta, ma familiarizziamo presto con lui, sebbene sia in una cella di isolamento «lunga quattro passi e larga un paio di braccia distese», sebbene abbia ammazzato un uomo: «Io sono qui per un sequestro di persona. […] Finché non ho ucciso la guardia c’era chi mi considerava un detenuto di serie B». In fondo, però, non ci sembra un delinquente ed è lui stesso a suggerirci che «magari hai ucciso una volta, ma sei assassino per sempre. Un istante dà il nome a tutta la tua vita. Ma chiunque ne esce male, a ricordarlo soltanto per la cosa peggiore che ha fatto».

Torchio dimostra grande abilità nell’alternare frammenti di vita carceraria con la ricostruzione del sequestro, in cui il protagonista ha condiviso per mesi un pertugio nella terra, in mezzo a un bosco, con la giovane donna rapita, giungendo a un’intimità protettiva che a poco varrà davanti al tribunale. È un passato distante, però, cui sono seguiti gli anni di reclusione nel carcere dell’isola, dove Comandante era ancora un direttore rispettato e Toro un detenuto la cui autorità nessuno avrebbe messo in discussione: ora, nella nuova struttura penitenziaria, non è più così e, rivelato come e quando il narratore ha compiuto il suo delitto, l’opera sfuma verso il finale. Non è del resto nel plot la forza di Cattivi, in cui il tempo è dilatato e il presente reiterato, ma nella capacità di mostrare di quanta violenza, fisica e non, siano capaci gli uomini – tutti gli uomini, cosa comportino la solitudine e l’impossibilità di non illudersi: «Tutta la vita non consumata dev’essersi conservata, in qualche modo, da qualche parte. Dovrà arrivare. Non può essere evaporata semplicemente passeggiando, dormendo».


Una laurea in Filosofia, un dottorato in Sociologia della comunicazione, un lavoro presso il Centro Storico Fiat: nulla a che vedere con il carcere. Quando e come si sono delineate la voce narrante e le storie che racconti in Cattivi?

La primissima cosa che ho pubblicato, nel 1993, era un racconto intitolato Diario di vita a tre in una latrina. Tre personaggi chiusi in tre turche, l’una vicino all’altra, si nutrono delle cozze che allevano nelle vaschette degli sciacquoni e passano il tempo parlando senza vedersi o incontrarsi mai. Evidentemente – dico evidentemente perché anch’io me ne sono accorto solo dopo, quando Cattivi era già quasi finito – una certa passione nel raccontare i luoghi chiusi l’ho sempre avuta. E poi sono un ascoltatore di Radio Carcere, un programma di Radio Radicale. A un certo punto, mentre mi arrovellavo su un possibile nuovo libro, mi son detto: ovvio, sarà in carcere! Sarà chiuso in prigione dalla prima all’ultima pagina.


Tra Piccoli animali, sempre pubblicato da Einaudi, e Cattivi sono trascorsi sei anni: un intervallo prevalentemente dedicato allo studio delle fonti (tanti gli autori menzionati nei ringraziamenti)?

Leggere scrivere e incontrare persone sono andati di pari passo. Solo verso il finale ho smesso di documentarmi perché volevo astrarre, seguire meglio il mio filo. Ho letto soprattutto di carcere e di sequestri (ma anche di case di riposo, collaboratori di giustizia, carriere di giovani criminali…). Storie – non necessariamente libri – raccontate dal punto di vista di chi è chiuso o, più raramente, di chi chiude. Entrare in carcere – io ho frequentato Bollate, vicino Milano – mi ha aiutato soprattutto a orientarmi in questa marea di voci, a sviluppare un minimo di orecchio.


A quando risalgono i tuoi primi esperimenti narrativi? Oltre che strumento conoscitivo cos’è per te la scrittura?

Ho cominciato da adolescente, per consolarmi di altre cose che riuscivano peggio. La scrittura è strumento conoscitivo, espressivo, ma anche evasione, rompicapo. È come giocare a Civilization, o SimCity, solo non sai mai se stai davvero vincendo.


Come sei giunto prima a Sironi, la casa editrice del tuo esordio (Tecnologie affettive, 2004), e poi a Einaudi?

A Sironi mandai un manoscritto dopo aver letto il manifesto L’Italia fa storie di Giulio Mozzi (un bel manifesto, ormai defunto, ripescabile negli archivi del web). Quando non ci speravo più mi hanno contattato. E prima che il libro uscisse Giulio mi mandò a leggerne dei pezzi a RicercaRE, laboratorio di nuove scritture. Lì ho conosciuto Paola Gallo e Dalia Oggero dell’Einaudi…


Quando Cattivi era ancora in bozze, su quali aspetti si è incentrato il confronto con gli editor Paola Gallo e Marco Peano?

Cattivi è nato in terza persona. Quando l’ho consegnato era già in prima ma restava il dubbio che la voce narrante stesse rivolgendosi a un qualche interlocutore reale, per quanto muto, all’interno del carcere. Paola e Marco mi hanno aiutato a liberarmene. Più in generale, mi hanno aiutato a scovare cose sopravvissute da stesure precedenti ma prive ormai di una ragion d’essere. E poi il titolo: il mio manoscritto aveva titoli di lavoro improponibili, e ne ero consapevole. A un certo punto ho mandato a Paola e Marco un elenco con una dozzina di titoli, forse di più, che includeva Captivi. Paola ha scelto Cattivi, dicendo che si capiva lo stesso. E aveva ragione.


Hai già in mente una nuova opera o ti stai dedicando alla lettura senza ulteriori fini? Quali sono gli ultimi libri che hai apprezzato?

Finché non è uscito Cattivi non avevo spazio mentale. E poi mi serviva qualche riscontro, un po’ di stima, prima di ricominciare. Ora ho ricominciato. Pensando a un nuovo libro leggo di più e meglio – temo di non avere lo spirito del flâneur. Un libro che però ho letto senza secondi fini, traendone godimento, è Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria) di Demetrio Paolin.


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