L'invulnerabile altrove/Estratto

Da mauriziotorchio.

< L'invulnerabile altrove


Perciò piú prudente – penso – solo l’anima

accostare al vetro della finestra –

dove altre creature mettono gli occhi –

incaute – del sole –

Emily Dickinson, Prima che mi venissero cavati gli occhi





Si venisse a sapere che parlo con lei, credo stupirebbe soprattutto una cosa: non ci conoscevamo.

Non siamo parenti, non ci siamo amate.

Alla gente piace pensare debbano venire prima il sangue, il passato, poi le parole. Noi no, noi il contrario. Piace credere a un sentimento piú forte della morte, un ponte sorretto dalla mancanza, dal vuoto che ha sotto. E a forza di chiamare qualcuno dovrà rispondere. Una pietà piegarsi. Evocare… Noi non ci siamo evocate. La prima volta che l’ho sentita stava urlando: Va’ via!, lo stava urlando a me. Non è facile urlare nel pensiero, senz’aria scambiata tra il dentro e il fuori. «Stai zitta», dicevo io. Non ti ho cercata, rispondeva Anna. «Non so chi sei». Non so il tuo nome. «Non mi interessi». Puoi fare quello che vuoi, ma io ci sono. Noi ci siamo. «Perché io? Perché proprio io?»

Come un innamorato che chieda: Perché ti penso tanto?

Perché il mio presente è abitato, prosciugato dall’altrove? Perché in una parte della mia testa si è fatto posto per un pezzo della tua?

Una voce accompagna le mie giornate e le distrae, le dirotta. Le incanta. Senza una colpa, un merito.

«Perché proprio noi due?»

Ci vuole tempo per capire la bellezza di un incontro che non ha passato; che non riallaccia, ma inizia.

I morti sono ossessionati dal nuovo.

Anna mi ha raccontato che sua madre, la settimana prima di morire, vedeva la nonna seduta sul fondo del letto, e si era convinta che fosse venuta a prenderla. Mia madre diceva: la nonna mi aiuta a fare le valigie. Però questo non è possibile. Quando sei qui, capisci che quella non era la nonna, era una consolazione.

Anna, la voce di Anna, che è morta da piú di cent’anni, dell’inizio del Dopo ricorda soprattutto il sonno.

E gli animali.

Gli occhi che bruciano, la fatica per tenerli aperti, e non capire dove sei, cosa ci fanno tutte quelle persone e l’infinità di animali mescolati con te, su di te. Animali dai colori mai visti, cadono addormentati. Gli insetti cadono addormentati. Ti vorresti alzare, ma hai la sensazione che ti abbiano tolto qualcosa, sfilata via di nascosto. Chiudi di nuovo gli occhi. Qui però star fermi vuol dire muoversi, allontanarsi. Ancora non lo sai, ma è cosí.

Muoversi è lo stato naturale, da Anna. È quello che succede se non ti opponi.

Ricordo questo cavallo che cercava di farsi spazio. Chi era sveglio si è girato a guardare gli zoccoli. Lui è passato in mezzo a mucchi di noi e di altre bestie sdraiate: nessuno si è spostato. Ho visto un falco fissare una lepre a pochi metri. Immobile. Anche la lepre immobile. Sono rimasti cosí finché la terra, espandendosi, non li ha separati. Sono rimasti a guardarsi con intensità, certi di aver dimenticato qualcosa di essenziale, qualcosa che li legava nel profondo, Prima, li rendeva importanti l’uno per l’altra. Chi sono io? Sono quella che ha avuto sempre paura di lui.

Chi sono adesso? Dove vado, se non devo scappare?

Gente che ha avuto fame per tutta la vita, bisogno per tutta la vita, guardava animali assaggiati soltanto ai matrimoni: polli, mucche… senza afferrarli. Senza capire. Con un’unica certezza: stai dimenticando. «Come svegliarsi in piena notte, – le dico, – a metà di un sogno». E negli occhi degli altri, tutti, uomini e bestie, leggi lo stesso stupore. La stessa delusione: nessuno ti è venuto incontro. Nessuno ti sta aiutando a disfarle, le valigie. La rabbia verso chi non hai ritrovato è piú forte del dolore per chi ti sei lasciata indietro. Ed è talmente grande da impedirti di vedere chi ti cammina di fianco; tutti, come te, alla ricerca di qualcuno che non c’è. In cerca di colpe per dare un senso a quel vuoto. Pensi: sono io quella piccola, adesso. Pensi: perché chi era già qui, e diceva di volermi bene, non è venuto a prendermi? Qui, nel mondo nuovo, dove c’è urgente bisogno di informazioni pratiche, e tutti chiedono, nessuno risponde. È come arrivare in una stazione sconosciuta, o alla banchina di un porto, e non trovare cartelli con il tuo nome. Nessuno ti aspetta, nessuno ha viaggiato con te. Non importa quanti ti stiano addosso: nessuno ha viaggiato davvero con te; non c’è stato il tempo di vedere l’approdo piano piano arrivare, scambiarsi indirizzi, consigli; apri gli occhi e sei già lí; ti risvegli, per la centesima volta, di soprassalto, con il batticuore: qualcosa, nel mio ritmo, non va. Cos’ho nello stomaco, cos’ho nell’intestino? Avrò bisogno di riempirmi o di svuotarmi? O ripararmi? C’è qualcuno che può, ancora una volta, approfittare della mia fatica? Qualcosa che non sto facendo, e dovrei fare? Questi che vagano, che stanno provando a camminare, e tossiscono, e sputano, mi inciampano addosso, sanno qualcosa che io non so? Qualcosa che potrebbe decidere di me, per molto tempo a venire? Pensi: forse non mi hanno davvero dimenticata, forse chi mi voleva bene è solo in ritardo, e se mi allontano non mi troverà piú.

Ma in fondo sai già che non è vero.

Sai che devi allontanarti, prima che faccia buio. Perché intuisci che la notte c’è anche qui, e intorno non vedi ripari. Solo sabbia, e il vento che la disfa, e la terra che si sposta. E la cosa piú incredibile di tutte è: cosa fai in una situazione del genere? Ti copri.

I fiumi e la sabbia sono l’unica cosa che abbiamo, appena arrivati.

Ho cercato di farmi un vestito di acqua, un pane di acqua, un vestito di fango, un pane di fango: si sono disfatti. Non sei abituata a non avere oggetti, all’inizio. Qui hai solo le mani, e non bastano a coprirti tutta. E comunque hai troppo sonno per coprirti sempre, ma lo stesso ci provi, non sei abituata alla nudità, all’inizio. Ti accucci, cerchi di prenderti cura di te. Appena arrivata cerchi qualcuna che ti somigli, perché non sai da dove aspettarti il male. E allora gli uomini si accompagnano agli uomini, le donne alle donne, bianchi con bianchi, bambini con bambini. «Quanti bambini?» Il resto è piú difficile, perché da nudi è difficile riconoscere chi, Prima, poteva disporre di te. Io cercavo chi parlasse la mia lingua, e non trovavo nessuno, perché non mi bastavano i vocaboli: volevo l’accento, il dialetto. Non c’è lingua abbastanza madre, appena arrivati, e allora non so per quanto tempo sono rimasta zitta. Non mi bastava trovare qualcuna della mia città: l’avrei voluta del mio quartiere, della mia via. Che avesse lavorato in una fabbrica di fiammiferi, come me, e poi fosse finita per strada, e avesse pianto alla parata dell’incoronazione.

Mi sono incamminata con un gruppo dove c’erano sia giovani che vecchie. Poi le vecchie sono diventate giovani, le giovani sono rimaste giovani. E i bambini sono cresciuti, ma per conto loro, da un’altra parte. «Non ci saranno stati cosí tanti bambini…» Era pieno di bambini.

Ne arrivavano in continuazione.

Quelli che provavano a camminare e quelli che non la smettevano di correrti intorno, come i cani.

Dopo qualche mese sono spariti tutti.

Persino i cani, dopo un po’, si sono allontanati.

Finito il caos dell’arrivo ti accorgi di essere rimasta con chi ha la tua stessa forma o non ne ha nessuna, come l’acqua o la sabbia.

Ci vuole tempo per mescolarsi di nuovo.

La prima volta che abbiamo rivisto uno stormo, qualche anno fa, ci siamo inginocchiati e ci siamo messi a piangere. È vero… è tutto vero. Quegli uccelli volavano talmente in alto che era impossibile distinguerli, erano punti neri con le ali, e ci hanno ignorato. Ma c’erano.

«Come chi guardi un aereo volare».

Come chi guardi un aereo volare, e capisce che il mondo non è finito. Ci sono ancora estranei da incontrare, tracce… Sei mai stata nel deserto? «Sí». E in montagna? «Sí». Io mai, nel Prima. Qui è pieno di arancione, ci sono posti di sabbia arancione a perdita d’occhio, o bianca, tutte le sfumature del giallo, marrone, persino nero, venature nere. Tutti i colori della pelle. La pelle e la sabbia sono cresciute insieme, hanno imparato ad assomigliarsi, a nascondersi.

Solo all’arrivo c’erano ancora tutti i colori. E scaglie, piume. Poi ci si disperde.

Ho questo ricordo di aver sentito odore di alberi, nei primi giorni. Non erba: alberi grandi. Ma quando ho iniziato a farci caso, quando ho iniziato davvero a cercarli, non c’erano piú. Però ci ritroveremo, lo so. Piú avanti ci saranno cespugli, foreste, alberi giganteschi, alberi che da voi sono estinti, o non sono mai esistiti, perché non hanno avuto tempo. Basta continuare. Anche le piante stanno camminando, adesso, da qualche parte, i fili d’erba, tutti, ciascuno col suo passo, pur di accompagnarsi con chi hanno scelto. Ritrovarsi, nella reciproca convenienza.

L’importante è continuare.

Non restare indietro.


L'invulnerabile altrove
Cattivi
Piccoli animali
Tecnologie affettive
Votate agli stipendi Fiat
Biografia e contatti