L'invulnerabile altrove/Le cose che non capisci fino in fondo

Da mauriziotorchio.

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Le cose che non capisci fino in fondo

Stefania Lucamante. L'Indice dei libri del mese, dicembre 2021.

Che cosa succede quando si con­cepisce una narrazione roman­zesca in termini di una sempre pos­sibile costruzione di stati della mente che noi non conosciamo, ma sentia­mo? Che cosa accade quando l'inter­soggettività che ci conferma quali in­dividui si spinge fino all'ingresso nella mente dell'altro che ci rende soggetto, proprio in quell'individuo che di ta­le scambievolezza d'intenti ha biso­gno per interrogarsi sul mondo come su sé stesso? Ancora, come costrui­re un'immagine verbale che disegni gli stati schizofrenici della mente? In questo panorama, si può pensare al­la fenomenologia di Husserl che defi­nisce per intersoggettivi­tà un autentico rapporto con gli altri in cui la cura e la comprensione reci­proca costituiscono la di­fesa fondamentale contro il solipsismo.

Nel modello relazio­nale intersoggettivo la coppia è in una relazio­ne all'interno della quale non si danno altri bisogni se non quelli propri del processo di soggettivazione: la pre­senza dell'altro e quello di essere con l'altro in libertà. All'interno del mo­dello relazionale intersoggettivo che fa da parametro al procedere della re­lazione psicoanalitica, non vige alcu­na divisione di ruoli quali quelli di: maschile­-femminile, attivo­-passivo,conoscente­-conosciuto, tra chi inter­preta e chi è interpretato, tra chi dà e chi riceve, in una parola tra soggetto e oggetto. Questo è possibile grazie al fatto che i due attori della relazione psicoanalitica, facendo leva sulla loro capacità riflessiva, prendono distanza via via sempre più da sé stessi e dalla situazione contingente nella quale so­no entrambi calati e si progettano nel tempo nella libertà.

Secondo Massimo Fusillo (L'altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, La Nuova Italia, 1998) nella costruzione narrativa di una diade/dualità/dop­pio si forma un regime rappresenta­tivo fondato sull'ambiguità, sull'in­certezza percettiva, su quel sottile momento di esitazione tra sogno e veglia, allucinazione e miracolo, natu­rale e soprannaturale ormai canoniz­zato nella schematica ma sempre eff­icace formula di Tzvetan Todorov. Per quest'ultimo, "il fantastico è l'esitazio­ne provata da un essere il quale cono­sce soltanto le leggi naturali, di fron­te a un avvenimento apparentemente soprannaturale". Possiamo anche immaginare il dialogo interno (non in­teriore) fra due individui agenti di tale rapporto resi celebri dalla nostra letteratura: forse Agilulfo e Rambal­do di Calvino, forse Osac e Osmoc di Mari, forse, ancora, Carlo di Tetis e Carlo di Polis di Pasolini, e altre dia­di ancora presentano l'eterna e mera­vigliosa possibilità di narrativizzare la schizofrenia esistente in tutti noi. Come afferma Giorgio Manganel­li, in letteratura ogni sofferenza arti­cola una modalità diversa e sempre possibile del linguaggio. Ogni soffe­renza articola un suo modo di agire. Il linguaggio in cambio, le rende visi­bili, palpabili.

Viene da pensare che uno scrittore dalla penna assai raffinata quale Mau­rizio Torchio abbia a lungo riflettuto sulle varie riflessioni qui esposte per la concezione di un romanzo singolare quale L'invulnerabile altrove. Qui so­no due donne a costruire il doppio, Anna e un'ingegnera. Anna, irlande­se, al servizio dell'Impero britanni­co come operaia di una fabbrica di fiammiferi e vissuta durante il regno di Edoardo VII, ha conosciuto una vita di sfruttamenti e di fatica (come del resto sua madre che ha vissuto the big famine che l'ha costretta a lasciare l'Irlanda), mentre l'ingegnera vive im­mersa nella nostra contemporaneità fatta di supermarket e cellulari. L'in­gegnera spiega concetti del tutto nuo­vi alla sua sodale estinta, ma molto presente, che in cambio le racconta sto­rie di un tempo immerso in abissi dickensiani. Le amiche, in fondo, servo­no a spiegare "le cose che non capisci fino in fon­do" in modo non troppo dissimile da quello con cui una parte del nostro cervello dialoga con l'al­tra. Come in The Lovely Bones oppure in Benzina, ecco che un personaggio femminile morto diventa vivo e si racconta/rac­conta in una trama intessuta intorno all'investigazione dei legami possibili fra due menti. O, forse, fra le due par­ti della stessa mente che interagisco­no nel tentativo di trovare un senso all'esistenza. Una parte con la consa­pevolezza di risuonare nell'altra, pur vivendo in un'epoca diversa. Evitare le dissonanze per creare un'armonia fra giorno e notte, fra alba e tramonto. Fra il mondo che si muove di giorno e quello che si muove di notte. Dentro di noi. Schizofrenia e/o bipolarismo, la malattia di Sylvia Plath come anche di altre artiste famose, può costruire dei dialoghi simili a quelli che leggia­mo nel recente romanzo di Torchio: "Ci vuole troppo tempo per sprofon­dare, e ancora di più a riemergere; l'i­diozia serve a quello, dopotutto: a ri­cominciare da capo, da un'altra parte. I morti hanno sempre un'altra possi­bilità (...). Non trascuriamoci, Anna, non diamoci per scontate. Non è ve­ro che a stare nella stessa testa dopo un po' non si hanno più cose da dir­si". Pure, è quello che accade alle due amiche. Raffinato, ironico, pungen­te, il romanzo tocca vari stadi e sta­ti della mente senza però soffermar­si sulla specificità di genere, se non a proposito dei bimbi morti di Anna. La presenza di due donne significa forse altro in questo romanzo. Con "appassionata indifferenza" (un ossi­moro di Manganelli che si attaglia al­la narrazione di Torchio) il romanzo rivela come per taluni la letteratura sia un'utopia, un non­-luogo dove parlare dei "non morti", dei "legami spezzati", delle "metà spezzate". Di un mondo, insomma, in cui si ha sempre bisogno di un altro di cui fidarsi per tirare le somme della propria esistenza.


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