L'invulnerabile altrove/PremioBg22 – “L’invulnerabile altrove” di Maurizio Torchio

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PremioBg22 – “L’invulnerabile altrove” di Maurizio Torchio

Sergio Peter. La Balena Bianca, 16 marzo 2022.

Credo che sia capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di parlare con i morti. Al cimitero, di fronte alla tomba di un proprio caro, o rivolgendosi al cielo camminando. Un monologo tra sé e sé, senza mai aspettarsi davvero una risposta. È un moto naturale dell’animo umano. Lo scrittore torinese Maurizio Torchio indaga questa soglia intima fino all’esasperazione nel suo ultimo libro, L’invulnerabile altrove (Einaudi, 2021), creando da quell’impossibile nodo relazionale un romanzo dalla natura inedita.

Due donne si incontrano e si parlano. Le loro voci si assomigliano e riusciamo a distinguerle solo grazie a un effetto grafico, l’oscuramento della riga, una evidenziazione che ha lo scopo di dis-orientare. Della narratrice sappiamo solo che è ingegnera, esiste, ha un corpo, e vive in un mondo simile al nostro; dice di avere un compagno e un amante. Viene dato più spazio alla sua interlocutrice, una “voce che distrae, dirotta, incanta” parla dal e del Dopo. Si chiama Anna, visse nel secolo scorso, il Prima, una dieta basata sulle patate, porzioni di tempo passate in strada.

L’Altrove da cui sussurra è descritto man mano nella sua alterità – fiumi, sabbia, alberi estinti – dove presenze oltreumane mischiate ad animali e bambini si muovono in un paesaggio spettrale e deserto. L’estetica del Dopo è tra le cose più curiose del libro, perché estremamente spiazzante. Le dinamiche spaziotemporali sembrano influenzare il presente; ci sono torri umane, un tempo dilatato in cui per orientarsi ci si basa sulla lunghezza dei capelli. È un luogo che risulta non vulnerabile perché saldo dentro o dietro di noi; su di esso la narratrice non ha alcun potere, può solo appurarne l’esistenza. Ci sono esibizioni di ballo notturne, coreografie che hanno sempre una funzione terapeutica, distrazione e concentrazione insieme. Le mutazioni nel mondo del Dopo trasformano i sensi e la percezione; a chi legge sembra di vedere per la prima volta.

Anna faceva l’operaia in una fabbrica di fiammiferi, in Irlanda, ha avuto molti figli e fratelli, attraversato un’epidemia di colera, lavorato sodo. Com’è possibile che due esistenze così diverse si siano incrociate e si parlino?

Mentre leggevo, ho annaspato in cerca di riferimenti nella nostra narrativa e mi è venuto in mente Cartoline dai morti di Arminio; ho anche pensato a un Permunian più netto e controllato, meno tormentato, e poi sono andato indietro fino ai libri di Mario Tobino: Le libere donne di Magliano mi riaffioravano davanti agli occhi. Sì, mi sono detto all’inizio, queste donne potrebbero essere saltate fuori da un romanzo clinico anni ’50. Ma, non appena mi sembrava di aver capito, L’invulnerabile altrove nel suo sviluppo mi smentiva.

La verità è che questo libro si colloca solitario in un terreno di sterpaglie fluorescenti. È come se si fosse scritto da sé in un futuro distopico che ce lo rimanda indietro. La forma di cui si compone è nuova, trae la sua energia da una fantascienza esistenziale, eterea, fatta di dettagli sorprendenti. Di Arminio ha la poesia minimale, l’accuratezza dei tratteggi. Di Tobino mantiene la radice concentrazionaria di base. Con Permunian s’interfaccia per via del limbo che entrambi esplorano fino a un impossibile sollievo. Rispetto a questi modelli, tuttavia, va sempre oltre.

Ha un che di dostoevskijano, d’altro canto, per come prende il via, dalla constatazione delle protagoniste di non stare bene. «Sono malata, siamo malate». Il sottosuolo emerge dalle parole di Anna, l’infermità affiora, si sospetta che una sia il morbo dell’altra. Ma non si tratta di un disturbo psicotico. Il dialogo alternato che si concatena per tutto il romanzo, benché dissociato e impossibile, non ha la fretta, o il disordine, o la violenza, o l’autolesionismo, o il turbinio monologante dei deliri di uno schizofrenico. Nel capire cosa sia questa malattia il libro procede e trascina.

L’unica traccia di libertà è nella notte, «il modo di stare insieme più perfetto che abbiamo». In questo si nota un indizio della reale sostanza della voce di Anna come morbo interiore, che pullula nel buio e ha paura della luce, che nel nero trova la propria primavera di rinascita, e continuamente necessita di muoversi e proliferare. L’invulnerabile altrove è un organismo ibrido che indaga la malattia diffusa del tempo presente, una patologia esistenziale, prima che corporea, la prigione dentro cui siamo tutti rinchiusi, sorta di angoscia deprimente.

Nella meccanica ultraceleste del Dopo tutt’a un tratto s’inizia a parlare degli idioti, coloro che si perdono e restano indietro. Ma non soffrono di attacchi epilettici, come il principe Myskin. Semmai vivono nel costante sogno dato dalla narcolessia. Sono abrasi, permangono in posizione esicastica, possono ancora corrompere con la propria fragilità le abitanti femminili del loro mondo; sarà Luigi, innamorato di Anna, a farla ammalare. Quando Anna si contagia, viene isolata, delle volte sembra scomparire dalle pagine.

La soluzione per guarire – la cura – raccontano le voci, sarebbe allora un bimbo, un figlio condiviso concepito in sovrapposizione, creatura capace di concedere un passaggio tra i mondi, il risveglio. «Fare un figlio coi morti» diventa così il nucleo del romanzo, la scena centrale filmata da una telecamera voyeuristica fuori campo. L’amplesso con l’amante è descritto da Torchio con cruda finezza: Anna nel corpo dell’altra si muove a tentoni, ballerina timida reincarnata per poco in una veste che si toglie subito. Poi il rapporto diventa a tre, la narratrice si vede da fuori solo come ventriloquo e incubatrice, ne è disturbata. Le azioni dei personaggi sono imprevedibili, si spostano come spore.

In questa fase il personaggio di Anna mi ha fatto pensare a un’altra fiammiferaia, quella del film di Kaurismaki del 1990. Iris (Kati Outinen) è bionda come la donna del Dopo, anch’essa una specie di “bambola” con un forte desiderio di procreare. Lunghi piani fissi sugli ingranaggi, uno stile ritmico ovattato, e anche qui la protagonista sembra sia sul punto di perdere qualcosa per sempre – forse la vita stessa. La fisica dei corpi – e un abito – fanno da nodo. Perché da una parte, nel film, è un vestito indossato a permettere l’incontro con l’altro e la rottura. Nel libro, invece, è già da subito lo spogliamento di ogni velo a dare il via all’atto sessuale.

Subentra una nudità improvvisa, quasi da fata addormentata di fronte a un maschio passivo, usato come oggetto. La donna del Dopo è anche inaffidabile e peregrina, sta male, si immobilizza, ha la nausea e mostra di essere un fantasma nei panni di qualcun altro. Le due litigano, il loro rapporto è tutt’altro che fluido ed equilibrato, vive dentro costanti alti e bassi. Sorge il sospetto che la voce sia la malattia. Se Iris in Kaurismaki finisce col trasformarsi in un’assassina giusta, quale sarà invece nel libro di Torchio il destino di Anna?

I capitoli sono ambientati in luoghi sempre diversi: un supermercato, una camera da letto, una città piena di militari e zoppi, una vasca da bagno, un ufficio, il mondo del Dopo. Ogni scena serve a continuare un’autodiagnosi quasi impossibile, cercare corrispondenze tra mondi. Tutto è pervaso da un brusio di fondo molto simile a un dolore cronico difficile da spegnere veramente.

Nella narrazione a doppia matrice le due vite finiscono per compenetrarsi, pagando sempre una irriducibile opacità di fondo. È come se si parlassero da dietro due grossi caschi appannati.

La scrittura di Torchio, molto raffinata, cerca costantemente immagini inedite e si muove dentro una materia elementare contraddittoria ma bellissima. Fonde scienza, psicologia, cultura pop, religione, storia e arti circensi, in due monologhi costanti che a volte si ascoltano e sembrano capirsi. La qualità migliore è raggiunta quando appare una sorta di poesia in prosa asciutta, nitida ma misteriosa. «Col casco, se un seme cade dal cielo non può attecchire»

A tratti le due donne si scambiano ruolo e posizione, in una dialisi immaginaria dove i cuori pompano sangue nelle altrui vene. L’interlocutrice, però sfugge a qualsiasi meccanicità. Qui sta la grandezza del libro, nel fatto che gli operatori principali della narrazione fanno qualcosa di nuovo, identità biologiche di cui non fidarsi mai del tutto, il cui passato/presente è sì narrato, ma potrebbe essere solo una proiezione, pura costruzione metafisica senza basi reali. Si sente bene un sottofondo chimico, quasi da science-fiction, mai però desideroso di diventare preponderante.

Le macchine più preziose le tengono dentro capannoni che sembrano astronavi, le raffreddano con l’acqua dei torrenti, in mezzo a foreste dove solo i cerbiatti si possono avvicinare. Hanno bisogno di un’immensa quantità di energia, le macchine più nuove, come quella che serve per centomila escavatori, ma l’unica cosa che fanno è pensare. Pensare, e dissipare calore.

È però anche un libro sulla condizione della donna, mai tematizzata – non c’è davvero nulla a tema – ma sfumata, accennata, una figura mostrata nella sua doppiezza, nello stacco storico di un secolo, scavando nello iato tra una laureata di oggi e un’operaia di ieri.

Notevole la cura linguistica, ricercata, sempre tesa all’apertura di nuovi conglomerati di senso. Le parti migliori del libro, il cui effetto principale è lo straniamento, sono quelle dedicate ai paesaggi dell’Altrove, vedute inedite, non ancora immaginate. La geografia e il meteo sono schiaccianti e liberatori nel contempo, non sembrano portare da nessuna parte. Se fosse un quadro, l’avrebbe dipinto Banksy insieme a Bosch.

Il gesto letterario compiuto da Torchio è quello di immergersi nella corrente della fragilità umana, si tuffa a tutto corpo nella vulnerabilità della protagonista e della sua voce-specchio per indagarla a fondo con suggestioni e dialoghi intensi.

Una prosa che intende produrre una visione sfuocata degli eventi e dell’interiorità della narratrice, sempre sospesa sul nulla. Non c’è fede, non c’è trama né valori e nemmeno dei reali personaggi per come siamo abituati a incontrarne. Il conversato è lucido come mai potrebbe esserlo una farneticazione. Il colloquio tra le due donne non ha un fine né una direzione precisi, mostra tutto lo spaesamento della protagonista. L’invulnerabile altrove è un romanzo scritto da una soglia di in-comunicabilità.

Per tutto il tempo di lettura mi sono aspettato che avvenisse qualcosa, una rivelazione, un cambio di passo, uno stacco. Non è così. Qualsiasi spoiler è concesso, non essendovi un intreccio classico. Libro fermo nella sua ossessione di dar voce alla malattia, come se fosse la rassegna segreta dell’allucinazione uditiva di una donna in coma sotto il casco per l’ossigeno; porta tutti a camminare con la dolcezza dei sonnambuli, commossi dal suo gesto estremo di commiato.

Nel finale un’umanità zoppicante si muove claudicando affamata tra binari dove le erbacce pullulano, vegetazione infestante che sembra l’unica speranza in un mondo di spettri perduti, zombie. La distopia è radicale, dagli incubi sognati si palesa un futuro dove Anna, o l’altra donna, sarebbe l’ultima – tutti spariti – e il futuro si confonde con il prima.

Questo romanzo è la biografia di un contagio profondo, dove la disfunzione è oramai introiettata e tutta interna. Quando la voce narrante raggiunge una sorta di consapevolezza Anna infatti sfuma, sparisce del tutto, è sempre più simile a una radio. È come se la storia si dipanasse su più piani sovrapposti, in un rapporto simbiotico quasi parassitario. Il significato ultimo sfugge continuamente, sta al lettore completare la “casella vuota” o lasciarla fluttuare accanto a sé.

L’invulnerabile altrove, selezionato tra i finalisti del Premio Bergamo, promette di interrogare ancora a lungo su quale sia il senso del narrare, e che direzione potrebbe prendere la letteratura in un mondo sempre più asfissiante, città dove l’aria si fa irrespirabile e pare che per vivere sia necessario dar credito ai fosfeni, come fa la donna senza nome, colei che racconta.


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