Piccoli animali/Intervista con Nicola Villa

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Intervista con Nicola Villa

Nicola Villa. Scuola di scrittura Omero, 19 aprile 2009.

Un piccolo rivolo si è lentamente ingrossato. Sono partito dal wargame, da Risiko, come linguaggio per trasmettere un testamento spirituale. Inizialmente era un abbozzo di racconto che doveva finire in Tecnologie affettive e l’avevo pensato come una sorta di “Risiko per un figlio”, una parodia di quei saggi un po’ zuccherosi come Etica per un figlio di Savater o Il razzismo spiegato a mia figlia di Jelloun.

È stato questa l’origine di Piccoli animali (Einaudi) di Maurizio Torchio, quarantenne torinese, già autore di Tecnologie Affettive (Sironi 2004). Piccoli animali ha il coraggio di liberarsi dalla fiction, di cui il romanzo oggi sembra sempre più schiavo, per rifarsi a una tradizione dello sperimentalismo che non ha avuto molta fortuna nella nostra letteratura recente. Il tema è quello serissimo e attualissimo dell’adozione che è derivato appunto dallo studio dei giochi di guerra di ruolo da tavolo:

Mi ero documentato su tutto, le origini di Risiko, chi l’aveva inventato, gli altri wargames, ma a un certo punto mi sono accorto che a Carlo, uno dei personaggi, la cosa che interessava di più era tramandare a questo ragazzino, Livio, le sue conoscenze, i suoi valori, come se fosse un’adozione spirituale, fatta passando da una cosa assolutamente ludica. Il primo germoglio sull’adozione è stato quello, poi contemporaneamente una coppia di miei amici ha iniziato l’iter dell’adozione e tutto è venuto di conseguenza. La cosa strana, che mi aveva incuriosito, era stato l’esame da genitori a cui si erano dovuti sottoporre: i miei amici dovevano documentare al mondo che erano degni di avere prole, di tramandare, e dimostrarlo con test, estratti bancari, testimoni che dovevano certificare il loro affetto. E questa è solo una parte dell’universo dell’adozione. Da una parte vedevo i miei amici che vivevano il versante burocratico dell’adozione e dall’altro su internet vedevo il versante del mercato uniti entrambi dallo sforzo folle e grottesco di condensazione: come i miei amici dovevano in un’ora condensare il loro amore di fronte a una psicologa, così su internet ci sono delle schede di aspiranti genitori adottivi sperano di trovare una donna incinta che voglia dare a loro il suo bambino. Si fanno pubblicità: noi saremo i genitori più adatti per crescere il bambino che hai in pancia! Il contrasto fra l’enormità della posta in gioco e le poche parole a disposizione è dirompente. O ancora, su alcuni siti ci sono schede di bambini offerti in adozione che hanno lo stesso template del “pet of the day”, degli animali da compagnia che vengono messi su internet. E questo paragone è calzante perché ormai i figli vanno a riempire il tempo libero diversamente da un passato in cui entravano in un modello produttivo famigliare.


Il coro impersonale che si leva da queste pagine attraversa territori e tempi come delle funzioni matematiche e letterarie: ci sono Natalie e David in America che scelgono il loro futuro figlio selezionando le foto e video dal sito di un orfanotrofio che mette in esposizione i bambini su internet; in Italia Fausto e Annalisa incappano nella sadica e umiliante burocrazia delle adozioni; c’è la solitudine di Laura divisa tra un compagno fissato per i wargames e un amante che frequenta una palestra dove, oltre al culto per corpi muscolosi/mostruosi, si predica la risurrezione della carne; c’è infine Svetlana Stalin, figlia del padre adottivo del comunismo, che scappa dalle attenzioni soffocanti del padre, mentre in un mausoleo sotto la piazza Rossa il cadavere di Lenin viene accudito dagli imbalsamatori. Ma perché proprio il richiamo a Stalin e Lenin?

Questi due sono i grandi padri della patria. Mi è venuta la curiosità: cosa succede nelle famiglie dei padri della patria? Così ho scoperto della sterilità della moglie di Lenin, o la storia della figlia di Stalin. La cosa buffa è che molte delle parti più strampalate, riportate nel romanzo, sono vere. E’ vero, ad esempio, che la vedova di Frank Lloyd Wright si era convinta che in Svetlana Stalin si fosse reincarnata sua figlia, morta in un incidente d’auto. E se non è provato che Svetlana sia mai andata a vedere Cirk insieme al padre, è però certo che Stalin andava pazzo per i musical. C’è stata una fioritura di musical durante la dittatura. Film da non perdere, come Guidatori di trattori, o Volga volga.


La visione di Torchio non è mai moralista e nostalgica: i “piccoli animali” siamo noi, tutti orfani, nessuno escluso, tutti nel tentativo di trasmettere del nostro al futuro. Torchio è come un entomologo, uno scienziato che vede al microscopio il nostro mondo, come se fosse un plastico in scala. La sua sensibilità colpisce per le trasformazioni che ha ci ha indotto la tecnica, le cose con cui viviamo e comunichiamo tra noi:

Io guardo sempre con molta simpatia ai surrogati. Ho sempre in mente un brano di Platone che dice che a tutti gli animali era stato dato qualcosa, ad esempio le ali agli uccelli e così via, e per l’uomo non era rimasto più niente, e allora gli si dovette dare la sapienza tecnica. Questo per dire che le cose che ci si arrangia a fare sono spesso più umane, più nostre, di quelle che ci vengono spontaneamente. Senza arrivare a derive cyberpunk, sono sempre sospettoso verso la naturalità a tutti i costi. E non giudico questi personaggi, che appaltano la loro vita a un gioco di ruolo (come il gioco impossibile sulla follia della ritirata di Russia durante la seconda guerra mondiale), mentre la loro vita intanto va in sfacelo. Io non gioco ai giochi di guerra, però magari mi perdo in mondi altrettanto irrilevanti. Quanto alla nostalgia, della frase di Lucrezio in exergo (“E ormai appunto la nostra età è spossata, e la terra, sfinita dal partorire, a stento genera piccoli animali, essa che tutte le stirpi generò, e dette alla luce immani corpi di fiere”) mi piaceva proprio questa dimensione prospettica: è nostalgia di un tempo integro, eroico, ma ci arriva dal passato. Da un tempo che di solito ci sembra già integro, eroico.


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